Carnia zona libera, gli ottant’anni della Repubblica partigiana dell’Alto Friuli

Per alcune settimane, alla fine dell’estate 1944, un territorio di circa 2 mila chilometri quadrati a cavallo tra la montagna di Udine, l’Alto Pordenonese e il Centro Cadore venne sottratto al controllo nazifascista. Quaranta comuni, circa 90 mila persone, poterono assaporare la libertà, dopo vent’anni di dittatura, quattro di guerra e un anno di occupazione dell’esercito hitleriano

Andrea Zannini

Nell’estate del 1944 si aprì in Friuli una finestra di libertà, uno squarcio nel buio della guerra dal quale si intravvide la luce della rinascita dell’Italia.

Fu un’esperienza breve, intensa e drammatica. Per alcune settimane, alla fine dell’estate 1944, un territorio di circa 2 mila chilometri quadrati a cavallo tra la montagna di Udine, l’Alto Pordenonese e il Centro Cadore venne sottratto al controllo nazifascista. Quaranta comuni, circa 90 mila persone, poterono assaporare la libertà, dopo vent’anni di dittatura, quattro di guerra, un anno di occupazione dell’esercito hitleriano.

Le venti zone libere

Tra la ventina di zone libere partigiane che si vennero a creare nell’estate del 1944 nell’Italia del Nord, la Repubblica della Carnia e dell’Alto Friuli si distinse perché fu la maggiore per estensione e perché nei soli quindici giorni di vita intervenne su questioni che sarebbero state ai primi posti dell’agenda della nuova Italia del 25 aprile.

Fu “repubblica” e non “zona libera”, anche senza una vera investitura popolare, impossibile peraltro da organizzare, perché i suoi obiettivi erano alti: «Dare al mondo la dimostrazione della capacità degli italiani di darsi liberi ordinamenti democratici», recitava il manifesto che venne affisso sui muri delle case friulane della zona libera.

Agli inizi dell’estate del 1944 il regime hitleriano sembrava avere i mesi contati. Dopo la liberazione di Roma (4 giugno) e lo sbarco in Normandia (6 giugno) le linee tedesche in Italia erano sul punto di crollare e il generale Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, trasmetteva l’«istruzione valida per tutti i patrioti: uccidete i tedeschi, distruggete i loro materiali».

 

La Resistenza in Friuli

In Friuli la Resistenza aveva raggiunto un considerevole grado di organizzazione militare, ma faticava ad accogliere il flusso dei giovani che si rifiutavano di entrare nell’esercito di Salò o nella Wermacht. In Carnia la popolazione era sempre più insofferente verso l’occupazione, con le sue violenze e la politica degli ammassi di commestibili che sottraevano il cibo alle famiglie.

Dopo l’incendio di Forni di Sotto (25 maggio), i partigiani della Garibaldi e dell’Osoppo aumentarono gli attacchi ai presidii dei tedeschi, dei repubblichini della Milizia di difesa territoriale e delle forze dell’ordine. Stragi come quella di luglio delle malghe di Pramosio e della valle del But (52 morti) non fecero che aumentare l’avversione verso gli occupanti.

Le elezioni nei comuni

In agosto e in settembre tedeschi e repubblichini si ritirarono progressivamente dalle valli del Pordenonese e dall’intera Carnia. Solo Tolmezzo, centro strategico, rimase nelle loro mani. Nelle valli liberate furono creati i Comitati di Liberazione Nazionale di valle, riconosciuti dal Cln nazionale, e in molti comuni per la prima volta dopo vent’anni si procedette alle elezioni dei consigli comunali, e quindi dei sindaci.

Quasi ovunque si votò secondo il tradizionale sistema comunitario dei capifamiglia e dunque in molti casi, dove l’uomo mancava, perché in prigionia o in montagna, a mettere una scheda nell’urna furono delle donne. Fu la prima volta nella storia del nostro Paese che l’intera popolazione venne coinvolta in un esperimento di democrazia, partecipazione, responsabilità.

La sede della zona libera

Tra il 26 settembre e il 10 ottobre operò una Giunta provvisoria di governo composta da rappresentanti di tutti i partiti che facevano parte del governo Badoglio, e che all’indomani si sarebbero fatti carico della rinascita del Paese. Non si trattava quasi mai di carnici, è stato giustamente notato, ma così successe un po’ ovunque, anche nella più famosa repubblica partigiana dell’Ossola. Le riunioni si tennero al secondo piano di palazzo Unfer ad Ampezzo, che venne scelta come sede istituzionale della zona libera.

In tre sedute la giunta emanò alcuni decreti, che restarono solo sulla carta ma che indicano bene a quale progetto politico puntassero. Si sostituì il sistema fiscale esistente con una tassazione fortemente progressiva, si curò di salvaguardare i boschi dalle speculazioni commerciali, si dispose di far riprendere la scuola, che non doveva più essere luogo di educazione al fascismo, si pensò di riformare la giustizia, cominciando dall’eliminazione della pena di morte per i reati comuni.

Le colonne dei tedeschi

A fine settembre 1944 i tedeschi posero fine all’altra zona libera partigiana in Friuli, quella del Friuli Orientale, dimostrando spietatezza verso le popolazioni locali. La Chiesa, per voce dell’arcivescovo Nogara, fece sapere che per salvaguardare le comunità carniche era opportuno che i partigiani si disperdessero, ma l’invito non venne accolto. L’8 ottobre iniziò così l’operazione Waldläufer: le colonne con i mezzi corazzati tedeschi, i camion della milizia fascista e i cosacchi destinati a presidiare la Carnia risalirono le valli, trovando però una dura resistenza. Gli scontri durarono due mesi. Nel complesso l’estate della libertà della Carnia e dell’Alto Friuli costò 578 caduti, 321 civili e 257 partigiani, una differenza che la dice lunga sui metodi di guerra dei nazifascisti.

Dopo la fine della repubblica partigiana e con l’arrivo delle truppe cosacche, ha scritto lo storico Matteo Ermacora, «il rapporto tra popolazioni e resistenti toccò il punto più basso». Il sostegno alle formazioni partigiane non venne mai fatto mancare ma nell’inverno 1944-45 la delusione e la stanchezza si fecero sempre più forti.

Dopo la liberazione del Paese la primavera successiva, la Repubblica della Carnia e dell’Alto Friuli fu forse più apprezzata fuori della regione che in Friuli. Tra la gente cominciò a diffondersi una memoria debole della Resistenza, secondo cui l’esperienza dell’insurrezione era stata strumentalizzata soprattutto da comunisti e azionisti, e aveva finito per aumentare il cumulo di tragedie sulle famiglie. Vi contribuì anche il largo seguito che continuò ad avere nel primo dopoguerra, a livello locale, la Chiesa, che aveva sempre sostenuto posizioni attendiste, ma già durante la guerra era stata esclusivamente la stampa di sinistra a esaltare le zone libere.

La comunità della Carnia

Tra le ricadute meno avvertite ma più importanti dell’esperienza della zona libera vi fu l’avvio del processo che avrebbe portato alla costituzione dalla Comunità della Carnia, seguendo un’aspirazione che aveva le sue radici nell’età della Serenissima, e i suoi immediati precedenti nella tradizione delle cooperative carniche. Cosa è rimasto di quello spirito e di quella esperienza?

Le celebrazioni della repubblica partigiana si sono ripetute in questi decenni. Nel 2010, per impulso di un ex giovanissimo partigiano che aveva contribuito a salvare dai cosacchi in ritirata il suo villaggio, Voltois di Ampezzo, Giovanni Spangaro, un progetto dell’Università di Udine e della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, guidate allora da due carnici, Cristiana Compagno e Renzo Tondo, con convegni di studio, volumi e progetti per le scuole ha richiamato l’interesse su una pagina della nostra storia che, soprattutto tra i giovani, era ormai ignorata. Il lungometraggio di Marco Rossitti, Carnia 1944. Un’estate di libertà, trasmesso più volte anche dalla Rai, è stato visto centinaia di volte nelle piazze e nelle aule scolastiche.

Così lontana dal Friuli e dall’Italia di oggi, la storia della Repubblica della Carnia e dell’Alto Friuli è una pagina preziosa che non va dimenticata.

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto