Welles, il segno del genio I Trailers/ Video - Foto

PORDENONE. Si è infine svelato. Sessantasei minuti vissuti alla velocità di 24 fotogrammi al secondo. . Too much Johnson, più che un film, 1.809 metri di storia in 35mm. Orson Welles, lui in persona, dietro la cinepresa. Al tempo – il 1938 – era un affacendato teatrante e nulla più. Girò il suo prodotto cinematografico come supporto di una comedy degli equivoci e mai riuscì a proiettarlo, nemmeno la sera del debutto al Mercury Theatre. Da quel momento, pluff, il filmetto muto sparì di brutto. Pensare che Cinemazero lo conservava in casa senza saperlo. La misteriosa cassa proveniente da Roma finalmente fu spalancata e Too much Johnson se ne stava là dentro.
Teatro Verdi esaurito, ieri sera. Prima mondiale a Pordenone per le Giornate del Muto. Due, a grande richiesta, le repliche oggi a Cinemazero, alle 20 e alle 21.30 e il 16 ottobre a Rochester in America. Il silent film wellesiano, accompagnato nel rinato percorso in sala da Paolo Cherchi Usai, si mostra nel minuzioso restauro: bianchi e neri rinforzati e una parte, la prima, già montata, il resto è una sovrapposizione di scene ancora in attesa di logica. Una comica, di quelle frenetiche che spopolavano nei Venti, le richiestissime slapstick di Keaton, Sennett, Chaplin, Stanlio e Olio, Arbuckle.
«Le manifestazioni culturali sono uno straordinario veicolo per il nome del Friuli Venezia Giulia nel mondo – affema dal palco il governatore Debora Serracchiani, affiancata dal presidente del festival, Livio Jacob, e da Piero Colussi – e le Giornate ne sono una punta di diamante. La nostra è una terra di cinema, costellata da numerose eccellenze. E quando, come è avvenuto in quest'occasione, si lavora in squadra mettendo a fattore le esperienze di ognuno, i risultati che siamo in grado di raggiungere sono di spessore internazionale».
È Colussi a mettere i puntini sulle i. «Darei al caso un'importanza relativa, l'averlo ritrovato proprio a Pordenone, da trentadue anni il fulcro dell'antiquariato cinematografico, sa di appuntamento con il destino». Welles, nei Settanta, lascia frettolosamente la capitale. Qualcosa di suo finisce nei magazzini di una società di spedizioni, la Interdean. Uno scatolone riempito con materiale alla rinfusa, affiancato da mobilia e oggettistica varia.
La roba giace a lungo, troppo a lungo. Finché il responsabile della ditta piglia il telefono e chiama l'amico friulano Luigi Roiatti, offrendogli il carico ben conscio della sua passione per l'antico. C'è soltanto un veloce cambio di luogo, ma la cassa resta sigillata. Si sfogliano altri calendari ed è lo stesso Roiatti a contattare Cinemazero. Ennesimo trasloco. Nessuno osa aprire e di anni, stavolta, ne passano nove. Sarà il professor Ciro Giorgini, che firma il mitico Fuori orario di Raitre (in sala c'era anche Enrico Ghezzi) e di Orson sa tutto e più di tutto, a riconoscere in quei fotogrammi l'opera del maestro, dopo il primo passaggio a cura della Camera Ottica di Gorizia.
«È stata una curiosa identificazione – racconta – direi un expertise telefonico. Mi chiama Mario Catto di Cinemazero. “C'è una strana pellicola con Joseph Cotten”, dice. Non è Quarto potere? chiedo. “No, ne sono sicuro”. Non è forse L'orgoglio degli Amberson? Domando. “Direi di no. Cotten indossa una divertente paglietta e si fa inseguire da un tizio coi baffi”. Bene, infila i rulli dentro una cassetta di sicurezza. È Too Much Johnson. Bentornato fra noi».
Nel '38 il teatro era teatro e il cinema, cinema. Nessuno osava mescolarli, Orson Welles, sì. La commedia scelta per la stagione del suo Mercury Theatre fu, appunto, Too much Johnson, di un tale Gillette, zeppa di equivoci. Diremmo Feydeau, se possiamo osare un parallelismo. Trama complessa, ma stringendo con la sintesi, è un triangolo amoroso con svariati innesti esterni durante un viaggio verso Cuba.
Welles adorava il muto e, seppure il sonoro ormai imperasse, rimetterlo in vita su un palcoscenico gli pareva una buona idea. S'impadronì di una cinepresa dell'epoca con la precisa intenzione di dare un senso comico alla faccenda, spostando il punto di vista dalla stantia scenografia fissa ai tetti di New York. Cotten – e intravedi Harold Lloyd – sfugge abilmente al marito dell'amante, fughe iperboliche contraddistinte da equilibrismi precari sui cornicioni dei grattacieli. La caccia è inesauribile. Per strada, sulla nave, su una scogliera per spegnersi in un laghetto sessantasei minuti dopo. La mano c'era, lo sguardo pure, il ritmo anche. Quarto potere già gli ronzava in testa.
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