Via Fani 40 anni dopo un caso e troppi misteri che gli storici evitano

Come tutti gli avvenimenti che segnano un’epoca, anzi che quasi la determinano, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro hanno generato un profluvio di libri. Una lunga scia di pagine scritte, che ha...

Come tutti gli avvenimenti che segnano un’epoca, anzi che quasi la determinano, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro hanno generato un profluvio di libri. Una lunga scia di pagine scritte, che ha dato vita a una specie di sottogenere della storiografia italiana sull’Italia repubblicana. Tanto che l’associazione che cura l’Archivio di Sergio Flamigni, il senatore del Pci che è stato tra i massimi studiosi del caso Moro, pubblica e aggiorna costantemente sul suo sito una bibliografia sul politico pugliese, consultabile da tutti e che conta ormai decine di pagine di titoli.

Nell’immediatezza del delitto uscirono subito i reportage di alcuni tra i nomi più importanti del giornalismo dell’epoca, da Giorgio Bocca a Gustavo Selva, a Corrado Augias, a un giovane Antonio Padellaro. L’ipotesi che dietro all’attentato non ci potesse essere solo l’attacco al cuore dello Stato delle Brigate Rosse fu avanzata subito, perché era implicita nelle stesse lettere del senatore democristiano. Vi si sollevava il sospetto che il suo rapimento fosse utile a liquidare l’esperimento della solidarietà nazionale: il quarto ministero Andreotti che si presentò in Parlamento lo stesso giorno dell’eccidio di via Fani, il 16 marzo 1978, e che vedeva per la prima volta l’appoggio esterno del Pci a un monocolore democristiano.

Proprio sulle trenta lettere dalla prigionia note all’epoca, Leonardo Sciascia incentrava il primo pamphlet del caso Moro. Nell’“Affaire Moro” (Sellerio, poi Adelphi), uscito pochi mesi dopo l’assassinio, lo scrittore siciliano rivendicava pienamente al senatore democristiano il contenuto delle lettere che, durante il sequestro, erano invece state considerate come scritte sotto costrizione, se non violenza. Vi si potevano addirittura leggere dei messaggi nascosti inviati per segnalare dove Moro credeva di trovarsi. L’idea che, come avrebbe scritto lo stesso Sciascia, nei cinquantacinque giorni del sequestro «l'incertezza, la confusione, i disguidi, le omissioni, le vuote operazioni» fossero state tali e tanti da non poter essere addebitate al caso, generò la formazione di una Commissione parlamentare che operò tra 1979 e 1983, chiarendo quantomeno quali e quanti fossero i problemi sul tavolo.

Negli anni Ottanta i brigatisti vennero catturati a uno a uno e iniziarono i processi Moro, di cui alla fine si ebbero cinque filoni principali. La documentazione iniziò ad avere dimensioni incontrollabili, a meno che non vi si dedicasse sostanzialmente a tempo pieno. Come fece il senatore Sergio Flamigni, già membro della Commissione parlamentare d’inchiesta, che nel 1988 pubblicava il primo punto fermo basato su atti processuali e interviste dei protagonisti, “La tela del ragno” (Edizioni associate, poi Kaos). Veniva per la prima volta analizzato il ruolo che ebbero nei giorni del sequestro gli appartenenti alla Loggia massonica coperta P2 e si formulavano le due ipotesi che da allora rimangono in campo. La prima è che, rimanendo l’iniziativa dell’operazione Moro addossata alle Br, alcuni settori dello Stato di destra colsero nella conclusione cruenta del sequestro la possibilità di far fallire la politica di solidarietà nazionale. La seconda vede invece addirittura i bierre, consapevoli o meno, come esecutori di un disegno politico più complesso, formulato altrove, e finalizzato a scongiurare il compromesso storico che avrebbe portato i comunisti al governo in un Paese della Nato.

Negli anni Novanta, grazie anche ad alcune fortunate trasmissioni televisive, il caso Moro era ormai diventato un genere storiografico e – finalmente – cominciarono a cimentarvisi anche gli storici. In “Il caso Moro. Una tragedia repubblicana” (Il Mulino, 2005) Agostino Romagnoli spostava il focus dell’interesse dall’indagine poliziesca alla natura di tragedia morale e politica del sequestro brigatista.

Lo specialista di Cinquecento Miguel Gotor, invece, affrontava coraggiosamente e filologicamente in “Lettere dalla prigionia” (Einaudi, 2008) il testo delle lettere di Moro ritrovate, ormai diventate un’ottantina. La lettura dietrologica veniva abbandonata e, con una minuziosa edizione critica, Gotor puntava a cogliere il cuore del discorso di Moro nei suoi risvolti politici. Un approccio che proseguiva in “Il memoriale della Repubblica” (Einaudi, 2011), nel quale sotto la lente del microscopio erano poste le 250 pagine dell’interrogatorio del prigioniero, con le annotazioni di suo pugno, che le Br non vollero mai divulgare e che fu casualmente scoperto nella ristrutturazione del covo di via Monte Nevoso.

Negli ultimi anni ai politici, giornalisti, documentaristi, sociologi, scrittori (l’ultimo Giancarlo De Cataldo), registi (da Bellocchio a Martinelli) che hanno prodotto sul caso Moro si sono aggiunti anche due magistrati, Ferdinando Imposimato e Carlo Mastelloni.

Una nuova Commissione d’inchiesta parlamentare ha aperto e chiuso i battenti. Sono state sviluppate piste e ipotesi che portano alla P2, ai palestinesi, all’Urss, agli Usa, agli israeliani, all’Autonomia Operaia e ora, da ultimo, alla Gran Bretagna.

Mentre la distanza necessaria a considerare con la lente della storia i fatti della cronaca aumenta, gli storici continuano però a tenersi alla lontana dal caso Moro.

Si dedicano alle biografie dello statista, alla focalizzazione del suo ruolo politico, ma evitano accuratamente di rispondere alle domande del più grande caso politico-giudiziario della storia repubblicana. Perché?

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