Tina Modotti, gli scatti inediti. Pignat: ci sono almeno 50 foto

Lo studioso da Pordenone rilancia: «Ho visto archivi nel mondo con sue opere». E un collezionista svizzero ha 3 nudi dell’artista opera dell’americana Kanaga

UDINE. C’era una bambina nata in borgo Pracchiuso il 17 agosto 1896, proprio l’anno in cui Arturo Malignani si recò in America da Edison a vendere il brevetto sulla lampadina elettrica cambiando cosí volto alla sua vita e un po’ anche al Friuli. Storie che si intrecciano perché, alla fine, nulla è casuale.

Il nonno paterno di quella bambina, Domenico Saltarini Modotti, aveva avuto undici figli da due mogli e viveva nel suburbio Gemona 6, indirizzo poi trasformato in via San Daniele 2, ed era il discendente di una famiglia Modotto (in origine al singolare), citata sui libri della parrocchia del Redentore con il soprannome di “Saltarin”.

Ecco spiegato allora il doppio cognome di Assunta Adelaide Luigia, detta Tina, figlia di Giuseppe, meccanico, e di Assunta Mondini, cucitrice. Il padre emigrò in Austria con tutta la famiglia già nel 1897 e ci rimase fino al 1905. Al ritorno, Tina per due anni frequentò la scuola di via Dante ed ebbe difficoltà con l’italiano perché parlava solo il friulano e il tedesco appreso a Sanct Ruprecht e a Ferlach.

Da ragazzina venne presto avviata al lavoro come operaia tessile, probabilmente nella fabbrica Raiser in via Treppo, a pochi passi da casa. Quel luogo divenne per lei una sorta di ulteriore palestra linguistica in quanto, come testimoniò chi la conobbe in Messico, «Tina parlava spesso in friulano, cantava in friulano, raccontava a tutti di Udine e non si stancava di spiegare che cosa significava essere friulani».

Dopo il periodo austriaco e il breve ritorno, le difficoltà bussarono ancora alla porta dei Modotti e il padre decise di puntare sulle Americhe trasferendosi a San Francisco nel 1907. Tina, con il resto della famiglia, a parte la sorella Valentina, lo raggiunse nel 1913 non facendo piú ritorno nella sua città. In California trovò occupazione come operaia iniziando pure a recitare nei teatri della Little Italy dove venne scoperta da un talent scout che la ingaggiò come attrice a Hollywood per tre film del cinema muto, fra 1920 e ’22.

Nel frattempo sposò un pittore canadese che la introdusse negli ambienti intellettuali dove conobbe il grande fotografo Edward Weston. Alla morte del marito, Tina seguí Weston in Messico nel 1924 apprendendo da lui ogni segreto e diventando per tutti “Tinissima”, capace di unire sensibilità e talento, che aveva ereditato dallo zio Pietro Modotti, uno dei nomi di spicco nella Udine dell’Ottocento, mentre anche papà Giuseppe aveva aperto uno studio dopo lo sbarco a San Francisco.

Questo, appena narrato grazie a spunti forniti in un bellissimo saggio di Gianfranco Ellero, è a grandi tratti l’inizio d’una storia importante e significativa per gli udinesi. Racconta le vicende, il mito, l’alone di mistero che circonda quella ragazza di Pracchiuso e che morí da sola in un taxi, nel 1942, a Città del Messico dopo una vita avventurosa e anche drammatica, sempre in bilico fra arte, slanci esistenziali e impegno politico.

Di Tina si sa tanto, specialmente a Udine, dove nel 1989 sorse un comitato su iniziativa di Riccardo Toffoletti per spiegare e mostrare ai friulani e a tutti chi era, quali segni e opere ci ha lasciato.

L’esistenza della Modotti racchiude sempre un racconto vertiginoso («Oh quanta bellezza! - disse in una lettera a Weston - Libri, immagini, musica, luci di candela, occhi in cui guardare, e poi il buio, i baci. A momenti mi pare di non poter sopportare tanta bellezza. Mi travolge, e allora vengono le lacrime, e la tristezza, ma la tristezza arriva come una benedizione ed è una nuova forma di bellezza»).

Ed è un racconto che non finisce mai di colpire l’attenzione. Anni fa si era parlato di un film sulla sua vita con protagonista Madonna. La figura di Tina appare comunque in pellicole dedicate a quel periodo, in cui spiccano a esempio Frida Kalho, Diego Rivera e altri talenti. Probabilmente è la donna udinese piú famosa al mondo, come confermano le mostre che le sono continuamente dedicate.

Ieri si è chiusa la bella retrospettiva organizzata a Verona da Cinemazero e curata da Riccardo Costantini nel Centro internazionale di fotografia Scavi scaligeri, dove si era aperta in novembre. Si tratta di occasioni in cui svelare aspetti nuovi, inesplorati, dovuti al fatto che la Modotti non catalogò mai, non conservò le sue opere affidandole al flusso del caso e degli incontri. Tra l’altro di lei non resta nulla di scritto, a parte le lettere, motivo ancora di emozionanti scoperte.

Come quelle narrate dall’architetto Gianni Pignat in un articolo, accompagnato da fotografie straordinarie, pubblicato sui “Quaderni della Biblioteca civica di Pordenone”.

Dopo ricerche svolte in mezzo mondo, fra archivi istituzionali e privati, Pignat alla fine afferma: «Nel tempo mi sono reso conto che la produzione di Tina non si esaurisce con le circa 200 foto conosciute negli anni Ottanta. Ci sono archivi dove ho potuto vedere almeno una cinquantina di foto inedite. Anche diversi privati mi hanno mostrato sue foto inedite. Un collezionista svizzero possiede tre rare foto di nudo fatte a Tina nel 1926 a San Francisco: l’autrice è l’americana Consuelo Kanaga a cui la Modotti si era rivolta per l’acquisto della fotocamera Graflex».

L’articolo di Pignat è una miniera di rivelazioni interessanti, quasi un viaggio nella vita misteriosa della ragazzina di Pracchiuso. Narra anche gli incontri con chi l’aveva conosciuta. Per esempio, la cubana Maria Luisa Laffita ricorda le villotte friulane che Tina le cantava durante i bombardamenti nei rifugi di Madrid dove prestavano servizio al tempo della guerra civile.

Invece l’ungherese Kati Horna ha dato a Pignat la foto scattata a Tina nel 1937 mentre lava i panni alla fontana di Jativa, nei pressi di Valencia. Sembra un’immagine colta in via Gemona, a Udine, quando c’era la roggia. E Tina è lí, una donna irregolare (come venne definita), avvolta nel suo suggestivo mistero. Scrisse in una lettera: «Sono esausta per l’intensità dei sentimenti. Le palpebre sono cariche di sonno, ma nel cuore c’è una gioia segreta per le ore che saranno ancora nostre».

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