La Società Filologica Friulana ripubblica L’aghe dapît la cleve di Dino Virgili
La recensione del libro scritto dall’intellettuale e friulanista . L’opera è una rievocazione della civiltà contadina che non esiste più, con i suoi odori, i paesaggi, i sapori, la fatica e la miseria

La riedizione di un capolavoro letterario è operazione sempre benvenuta, perché restituisce al mondo l’emozione della prima volta e all’opera un altro “giro di giostra”. Una specie di “ulteriore possibilità” di accendere visioni, far vibrare corde.
Quando poi si tratta di un testo ormai introvabile (l’ultima edizione del libro che ora ho per le mani risale al 1979) allora la gratitudine del lettore si trasforma in quel godimento sottile, che prende molti di noi in casi come questo, nel ritrovarsi sulla scrivania carte amate al tempo dell’età fiorita, appuntate furiosamente, sottolineate tanto da interagire fisicamente con quelle pagine che hanno rappresentato molto, per la nostra formazione, e che vorremmo custodire gelosamente tra gli scaffali della biblioteca di casa, a disposizione per rivisitazioni e salvifiche frequentazioni.
L’opera di cui sto parlando è “L’aghe dapît la cleve”(a cura di Davide Turello, SFF, 450 pagine), fatica di un gigante della nostra terra friulana, quel Dino Virgili nato a Ceresetto il 27 febbraio del 1925: un intellettuale di straordinario spessore che dovrebbe essere ricordato più spesso, non solo nei convegni e nei dibattiti degli “addetti ai lavori”, ma in incontri pubblici, letture sceniche, spettacoli teatrali, aule scolastiche e universitarie, perché quello che ha scritto “nel tempo di sua vita mortale” è di una tale bellezza e di una profondità così densa di suggestione che abbeverarsi a tale fonte dispensa refrigerio e ristoro, specialmente in questi nostri tempi infelici. L’occasione dunque che ha permesso di realizzare questo atteso progetto editoriale è l’anniversario secco del secolo tondo dal dì natale.
Ma il regalo, va detto, in questo caso non è tanto per l’autore quanto per ciascuno di noi. Complici il Comune di Martignacco e la Società Filologica Friulana, che ne hanno commissionata la realizzazione. La grandezza di questo affresco straordinario della nostra Terra è indiscussa: perché rievoca quella civiltà contadina che non esiste più, con i suoi odori, i paesaggi, i sapori, la fatica e la miseria, la migranza e l’attesa che ne caratterizzarono il profilo. Fin da subito e negli anni che seguirono la prima edizione (la pubblicazione uscì dapprima su “La Patrie dal Friûl” a partire dal 1951, interrompendosi nel 1954, sicché il romanzo vide integralmente la luce soltanto nel 1957) il valore di questo primo vero romanzo della letteratura friulana è stato sottolineato da critici e da intellettuali di vaglia, le cui credenziali, riconosciute dalla “Res Publica Litterarum”, non hanno bisogno di commento: Giuseppe Marchetti, Sergio Sarti, Chino Ermacora, Andreina Ciceri, Angela Felice, Dino Menichini, Eraldo Sgubin, e non certo da ultimo Rienzo Pellegrini, tutti debitamente citati nell’illuminante introduzione a firma di Davide Turello, il quale ha anche curato l’apparato critico che arricchisce il testo.
E proprio su questo attento lavoro di appassionata filologia vorrei soffermarmi, a conclusione di questa recensione. Il curatore aggiunge un valore importante alla parola di Virgili, evidenziando e spiegando termini ed espressioni della lingua friulana ormai desueti, ai quali il lettore di oggi farebbe fatica ad attribuire un significato, smarritosi nel tempo. L’operazione è dunque profittevole sotto due punti di vista: accompagna il passo di chi si accosta al testo evitandogli inciampi. Ma soprattutto mette a disposizione a piè di pagina un vocabolario della memoria.
Va a caccia di conchiglie preziose, Turello, sulla riva di un mare che ci pare di immenso orizzonte, e ce le regala. Tanto che, lo confesso, mi sono appassionato a compulsarne i lemmi, perdendomi in un mondo ancestrale, arcaico e straniante, capace di restituirci – evidenziandone tutta la bellezza – un Friulano che non rimbalza più sulle nostre labbra troppo imbarbarite da contaminazioni e meticciati linguistici: “smalità” per dimenarsi; “futiçà” inteso come lavoricchiare o trafficare; “sime” per freddo intenso. Parole. Schegge di vita in cui perdersi è stato bello.
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