Scintille irredentiste: l’attentato di Oberdan e i moti anti-austriaci

Era come un gioco degli scacchi: alla mossa di uno seguiva quella dell’altro, ma le pedine non si rivelavano decisive per avviare e concludere la partita. Tra Austria e Italia la tensione andava crescendo e sin dai primi anni del Novecento le rivendicazioni avevano preso sempre piú consistenza da una parte e dall’altra.
Non è necessario essere esperti di strategia militare per rendersi conto di cosa stia bollendo in pentola; muovendomi da Udine ho fatto qualche escursione nella provincia e mi sono soffermato in alcuni paesi della Bassa friulana, dove la linea di confine con l’Austria si dipana a zig-zag ignorando ovviamente realtà di vita italianissime per lingua, censo, cultura e tradizioni. Mi sono fermato a Visco, un pugno di case a pochi chilometri da Palmanova, campagna a perdita d’occhio, una divisione artefatta del territorio, da una parte si parla italiano, dall’altra pure e quanti vivono di qua e di là del tracciato si dichiarano fedelissimi a Vittorio Emanuele.
«È il nostro Re - mi dice con fermo tono di voce il vecchio che ho difronte, appoggiato alla pala conficcata nella terra - è lui che guida l’Italia e sono certo che presto o tardi libererà anche noi e finalmente potremo vivere nella nostra patria».
«Ma che differenza fa - gli obietto - vivere di qua o di là; siete trattati male?».
«Non posso dire che ci trattino male; gli austriaci sono seri e ci rispettano; ma noi siamo italiani, Cristo! Siamo nati italiani e nessuno ha diritto di negarlo. Noi siamo disposti a ogni sacrificio pur di dare alla nostra patria ciò che è suo, cioè nostro, ostia, capisial siôr, mi capisial...».
Certo che capisco. Queste poche semplici parole di un vecchio contadino mi sono state ripetute dai molti altri paesani con cui mi sono intrattenuto. Sono sempre piú convinto che qui ci sarà molto da scrivere ed è opportuno conoscere a fondo i sentimenti che hanno animato coloro che hanno affrontato anche l’estremo sacrificio per sostenere il proprio ideale. Cerco di comprendere quali sono stati dall’inizio del secolo fino a oggi i momenti salienti che hanno portato alla crisi di due nazioni.
Dopo gli osanna dei friulani al Re quando con la regina salí al castello di Udine tra una folla festante, gli austriaci interpretarono l’episodio come un atto provocatorio; il partito aristocratico, a capo del quale era l’erede arciduca Ferdinando Salvatore, per lavare l’umiliazione dell’impero chiese la convocazione dell’ambasciatore italiano per espellere l’Italia dalla Triplice alleanza. Francesco Giuseppe ignorò la questione per non darle eccessiva importanza, ma in cuor suo capiva che un altro passo era compiuto nei conflittuali rapporti tra le due nazioni.
Al di là delle manifestazioni popolari che avvenivano per spontanee iniziative, a cavallo tra i due secoli furono organizzate anche due azioni rivoluzionarie che non ebbero l’esito sperato, ma testimoniarono quanto fosse sentito il problema di Trento e Trieste.
Il filone dell’irredentismo può essere legato addirittura a Giuseppe Garibaldi, al quale si ispirarono i primi nazionalisti che non consideravano concluse le lotte del Risorgimento. Un nome è già fissato nella memoria di tutti gli italiani: Guglielmo Oberdan, che condusse una vita straordinaria, segnata sin dall’inizio da un interiore tormento.
Era figlio illegittimo di una domestica di origine slovena, Josepha Maria Oberdank, che lavorava a Gorizia, dove, da una relazione con un soldato veneto , Valentino Falcier, arruolato nell’esercito austriaco, ebbe un figlio, che il padre naturale non volle riconoscere. Quando Falcier fu trasferito, la donna rimase sola con il piccino da far crescere; conobbe un facchino del porto, Franz Ferencich, che aveva già quattro figli, lo sposò, ma non riuscí a fargli riconoscere il proprio bambino, il quale soltanto in gioventú italianizzò l’identità in Guglielmo Oberdan.
Diventato adulto, il giovane si iscrisse al Politecnico di Vienna, dove presto rappresentò una guida per gli studenti italiani e polacchi che nutrivano idee irredentiste. Non aveva ancora concluso gli studi universitari quando l’Austria proclamò la mobilitazione per occupare militarmente la Bosnia e l’Erzegovina; ricevette la chiamata alle armi e dovette interrompere gli studi.
Il soldato Oberdan, però, rimase poco nel 22° reggimento fanteria al quale era stato assegnato: come avrebbe potuto combattere per una nazione invisa all’Italia? Nell’estate 1878 disertò, abbandonò Vienna e si trasferí a Roma, in un’unica stanza dove appese i quadri di Gesú e di Garibaldi. Riprese l’attività politica collaborando con Matteo Renato Imbriani, leader del movimento irredentista e fondatore dell’associazione Italia irredenta.
In Oberdan maturò l’idea di compiere un clamoroso attentato contro Francesco Giuseppe, in visita a Trieste. La notte del 2 agosto un uomo mai identificato lanciò una bomba su un corteo di veterani, causando una vittima; una bomba del tutto simile fu scoperta quindici giorni dopo a bordo di un piroscafo proveniente da Venezia. I due falliti attentati indussero Oberdan a compierne un terzo, del quale volle interessarsi personalmente. Portando con sé due ordigni, partí da Roma diretto a Trieste, ma a Ronchi fu bloccato dai gendarmi che avevano ricevuto da un messo comunale la segnalazione del suo ingresso clandestino nei pressi di Versa, territorio austriaco.
Durante l’interrogatorio si auto accusò piú volte, consapevole che sarebbe diventato un martire. Il 20 ottobre 1882 la magistratura austriaco lo condannò a morte per alto tradimento, diserzione in tempo di pace, resistenza violenta all’arresto. All’alba del 20 dicembre fu impiccato nel cortile interno della caserma grande di Trieste e mentre il boia venuto da Vienna gli metteva il cappio al collo, esclamò: «Evviva l’Italia, evviva Trieste libera».
Il tragico epilogo degli attentati suscitò enorme impressione e le file dei patrioti si ingrossarono rapidamente, sopratutto con l’adesione di giovani studenti che intensificarono le manifestazioni anti-austriache, cogliendo qualsiasi occasione propizia: una conferenza, uno spettacolo, un raduno mobilitavano gli irredentisti e spesso si concludevano con tafferugli, cui seguivano processi e relative condanne; i giornali locali ospitavano le notizie scritte dai giovani che trovavano sempre lo spunto per ridicolizzare la giustizia austriaca; il triestino L’Indipendente, per esempio, informò con tono chiaramente scherzoso, che «alcuni giovinetti, rei di essersi recati nel mite settembre nella mite Udine, citati un di questi giorni in polizia, furono fatti salire su per una scaletta a chiocciola, nell’alto della palazzina e là in bella luce e in bella posizione fotografati. I giovani restarono incantati dalla gentilezza dei funzionari di polizia che ne vollero assumere l’effigie gratuitamente e più furono incantati quando appresero che queste loro effigie andranno ad arricchire la galleria dei delinquenti celebri nell’ufficio antropometrico di Vienna».
Gli austriaci mostrarono indifferenza nel leggere quelle righe, un po’ perché era evidente il loro tono burlesco e un po’ perché la polizia era impegnata nelle indagini per un nuovo attentato che gli irredentisti stavano preparando.
(2-continua).
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