Ruritania, viaggio nel paese che non esiste: così l’Occidente immaginava i Balcani

A Pordenone i film dedicati a un luogo dell’immaginario della letteratura e del cinema

Paolo Lughi
Una proiezione alle Giornate del cinema muto ospitate al Teatro Verdi di Pordenone
Una proiezione alle Giornate del cinema muto ospitate al Teatro Verdi di Pordenone

PORDENONE. I luoghi veri sulle carte geografiche non si trovano mai, diceva Herman Melville a proposito dell’isola abbandonata dal suo Queequeg in “Moby Dick”. E non si trova sulle carte nemmeno la Ruritania, un paese che non c’è, ma che di fatto esiste ben radicato nell’immaginario della letteratura e del cinema, e situato non lontano da Trieste.

Regno di fantasia ideato dallo scrittore inglese Anthony Hope nel romanzo del 1894 “Il prigioniero di Zenda”, la Ruritania è diventata nel tempo, attraverso romanzi e film che arrivano fino a noi, un’idea dura a morire che l’Occidente ha dei Balcani. Metafora inoltre di un certo modo di vedere il potere, indipendentemente dal tipo di governo.

Un paese nel quale - sullo sfondo di lotte dinastiche ispirate ai turbolenti fatti storici di prima e dopo la Grande guerra - si intrecciano intrighi di corte politici e galanti, avventure di cappa e spada, l'operetta, l’eterno fascino controverso della monarchia e della nobiltà. Si tratta di un solido stereotipo della percezione dei Balcani in chiave antimoderna, che è stato poi criticato come forma di “colonizzazione letteraria” effettuata dall’Occidente (così sostiene la scrittrice serba Vesna Goldsworthy nel suo “Inventare la Ruritania: l’imperialismo dell’immaginazione”, 1998).

Proprio sulla nascita del filone cinematografico della Ruritania è dedicata un’ampia sezione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone.

Tra i titoli in programma, la prima cineversione de “Il prigioniero di Zenda” del 1913 di Edwin Porter (1924), lo svedese “Sua Maestà il barbiere” del 1928 e il britannico “The Runaway Princess” (1929) di Anthony Asquith. Non mancano inoltre le parodie come due cortometraggi con Stan Laurel, e “Long Fliv the King” (1926) di Leo McCarey, con Oliver Hardy. E trovano spazio anche cinegiornali e documenti storici sui veri regnanti dell'epoca, ricordando come pure la regina Elena, consorte di Vittorio Emanuele III, era originaria del Montenegro.

Ma questo singolare mito balcanico si è protratto ben oltre il cinema muto. Il regista a cui si devono le più belle declinazioni di tali reami da operetta è senz’altro l’ebreo berlinese (e poi hollywoodiano adottivo) Ernst Lubitsch.

Arrivato nel 1923 in California, esule ansioso di adattarsi alle attese del nuovo mondo, Lubitsch rievoca nel suoi primi film un mondo mitteleuropeo che corrisponda all’immagine accarezzata in America: una Mitteleuropa raffinata ed elegante, frivola e peccaminosa, che abbia il fascino slavo della mitica Ruritania di Hope. Magari nei suoi film non si chiama proprio così.

Ad esempio in “Forbidden Paradise” (1924) siamo in una corte slava indefinita. Oppure in “The Love Parade” (1929) siamo in Sylvania (nome poi ripreso dai fratelli Marx in “Zuppa d’anatra”, 1933). Oppure ne “La vedova allegra” (1934) siamo in un luogo che scopriamo sulla carta geografica d’Europa sui titoli di testa, quando una lente di ingrandimento cala dall’alto per farci vedere meglio un piccolo punto, il regno di Marshovia. E in Lubitsch questi luoghi sono sempre un’evidente metafora del cinema, o meglio dei reami di cartapesta del mondo hollywoodiano, dello splendore del falso.

È invece del 1937, del regista americano John Cromwell, la versione cinematografica più celebre de “Il prigioniero di Zenda”, con Douglas Fairbanks Jr. e Ronald Colman, quest’ultimo nel proverbiale doppio ruolo di un turista inglese, abile spadaccino, e del re di Ruritania di cui è sosia. Il re viene rapito, e per sventare i piani dell'usurpatore il turista impersona Sua Altezza sino alla sua liberazione. Echi del mito della Ruritania proseguono poi nel dopoguerra, da “Vacanze romane” di William Wyler del 1953, con la principessina ribelle Audrey Hepburn, fino al recente “Grand Budapest Hotel” (2014) di Wes Anderson, con la sua finta e innevata Repubblica di Zubrowka.

Arrivando a oggi, alzi la mano chi, guardando la serie tv “Servitore del popolo” che ha lanciato la carriera politica del presidente dell’Ucraina Zelensky, non abbia pensato almeno un po’ a una specie di Ruritania e alla sua tradizione di finte corti, cospiratori reggenti e regnanti per caso. Costringendoci a cercare esattamente i confini dell’Ucraina sulla carta geografica, sperando di averla solo immaginata.

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