Responsabilità e colpe a Caporetto: i pensieri che Gadda teneva segreti

UDINE. Una novità suscita il nostro interesse in chiusura degli anni centenari della Grande Guerra. Dalle carte di Carlo Emilio Gadda sono sbucati infatti 12 taccuini, di cui 8 inediti, riconducibili al “Giornale di guerra e di prigionia” (agosto 1915 - dicembre 1919, pubblicato parzialmente per la prima volta da Sansoni nel 1955, con aggiunte da Einaudi nel 1965) e al “Taccuino di Caporetto” (ottobre 1917 - aprile 1918, edito nel 1991 da Garzanti, 18 anni dopo la morte dell’autore).
Gadda, che denunciò tanto l’inadeguatezza con cui fu condotta la guerra, quanto lo strazio e il degrado della vita dei prigionieri, non voleva che la descrizione della tragedia di Caporetto venisse alla luce, convinto com’era sia del pericolo di riaccendere le polemiche sulle responsabilità sia di dover tacere certi giudizi su amici e conoscenti.
I documenti, che saranno messi all’asta da Finarte il 20 giugno, sono stati opzionati dalla Biblioteca Nazionale di Roma per oltre 30 mila euro. Paola Italia, che curerà per Adelphi la nuova edizione dei diari gaddiani prevista nel 2021, li ritiene «la testimonianza più drammatica e viva dell’esperienza vissuta da un soldato italiano nella Prima guerra mondiale».
Di là dalle remore di cui s’è detto, Gadda non risparmiava mai a nessuno, e men che meno a se stesso, il sarcasmo più pungente. Disse: «Finalmente creperò: spero di andare anche all’Inferno sì, ma dove non ci sia più né inchiostro, né penna, né calamaio. Nell’Inferno credo che sarò condannato a leggere le mie opere. “On scherz de preet”, come si dice a Milano».
Circa le proprie origini, invece, le ripensò così: «Sono nato da padre lombardo e da madre lombarda. La madre di mia madre era lombarda, ma suo padre era austriaco. Questo credo abbia influito sulla mia formazione fisiologica. Penso all’impianto etnico, al sangue».
La stirpe, l’imitazione degli avi e il senso del dovere, dell’onore e del sacrificio erano per lui fattori imperativi che, dopo un’infanzia e un’adolescenza tormentate in una famiglia borghese caduta in disgrazia per lutti e dissesti economici, lo proiettarono come interventista nella Grande Guerra.
All’entrata in guerra del Regno d’Italia Gadda, ventiduenne, frequentava controvoglia la facoltà di Ingegneria al Politecnico di Milano. Nell’immane conflitto gli parve di riconoscere l’avventura ideale per interrompere gli studi tecnici, emergere e riscattarsi da una sorta di paralisi dell’anima. Quel che trovò fu un esercito raffazzonato, disorganico, inefficiente e segnato perlopiù dall’intrigo, dal cinismo, dalla negligenza, dalla boria, dal vittimismo.
Con il suo sofferto passato, con la sua condizione di “grande solitario” (come fu soprannominato) e con la sua malattia interiore (per la quale coniò un’espressione - «male oscuro» - poi resa celebre da Giuseppe Berto) Gadda fece i conti soprattutto in un capolavoro assoluto della letteratura europea del Novecento: “La cognizione del dolore”, composto fra il 1938 e il 1941, ma pubblicato solo nel 1963 da Einaudi, poco prima del capolavoro di Berto.
Se poi l’opera più nota è probabilmente “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” (prima edizione in volume nel 1957, di Garzanti), in Friuli si ricorda in primis il libro intitolato “Il castello di Udine”, del 1934 (Edizioni di Solaria), dedicato anche ai fatti di guerra.
La «fine delle fini»: così Gadda dipinse Caporetto. Ma, tornato a casa nel gennaio 1919, scoprì un’atroce coda della guerra: il fratello Enrico, aviatore, che egli amava come «la parte migliore e più cara di me stesso», era scomparso. E il male oscuro conquistò sempre più spazio. —
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