Pasolini autore di teatro: il regista poco conosciuto tra innovazione e scontro

Si è conclusa a Casarsa la serie di lezioni con 25 iscritti dedicata al poeta e scrittore. Al centro degli incontri l’esame delle sei opere scritte in versi alla metà degli anni Sessanta

Mario Brandolin

Pasolini e il teatro, meglio il teatro e Pasolini. Perché sin dai primi anni Sessanta artisti lungimiranti avevamo intuito le grandi potenzialità anche “teatrali”della scrittura di Pasolini: come Vittorio Gassman che cercò di coinvolgerlo proprio sul terreno della scena, chiedendogli per il suo Teatro popolare italiano nel 1960 una nuova traduzione dell’Orestea eschilea e del Miles Gloriosus diventato il Vantone di Plauto (1963) che gli permettesse di rompere con gli schemi classicistici sin lì in vigore.

Solo nel 1966 l’attenzione di Pasolini per il teatro si concretizzò in maniera più decisa nella scrittura di sei opere teatrali in versi intese come strumento più adatto per una fenomenologia della borghesia in crisi: Orgia, Affabulazione, Pilade, Porcile, Calderon, Bestia da stile.

Nel 1968, con la stesura del Manifesto per un nuovo teatro - teatro di parola di pensiero - quindi, Pasolini porterà poi un altro provocatorio attacco al cuore del teatro italiano, accusato di consumarsi tra la “chiacchiera” intesa come sterile epigono del teatro pirandelliano el’“urlo” e “il gesto” vuoti strumenti della neoavanguardia.

E sempre nello stesso anno Pasolini, affrontò, ma sarà l’unica volta, a parte le esperienze giovanili a Casarsa, la regia mettendo in scena allo Stabile di Torino Orgia con Laura Betti protagonista: un flop di pubblico e critica che si ripeterà spesso nei confronti delle numerose messe in scena dopo la morte dell’autore di questi testi, anche di registi del calibro di Luca Ronconi e Massimo Castri.

E a Pasolini e le forme del teatro è stata dedicata la 6ª edizione della Scuola Pasolini che si è chiusa ieri a Casarsa. Diretta da Paolo Desogus della Sorbonne Université Parigi e Lisa Gasparotto dell’Università di Milano-Bicocca.

Una Scuola Pasolini post-universitaria che quest’anno ha visto la partecipazione di 25 fra laureati e dottorandi di diversi atenei italiani e d’Europa, «che è – spiega la presidente del Centro studi Pasolini, Flavia Leonarduzzi – una felice conferma del valore del nostro progetto, in grado di offrire agli studiosi contenuti nuovi oltre che un ambiente ideale ed esclusivo di studio, perché nei luoghi dove Pasolini ha vissuto e si è formato si “sente” più forte il suo pensiero».

Scuola inaugurata dalla lectio di Stefano Casi, docente e uomo di teatro - fondatore e animatore di Teatri di vita a Bologna con Andrea Adriatico - cui si deve, tra l’altro una versione molto coinvolgente, a mio avviso la migliore, di Orgia, una decina di anni fa. Con Casi, che al teatro di Pasolini ha dedicato più di un saggio, abbiamo cercato di capire perché sono così pochi gli spettacoli da testi pasoliniani pienamente riusciti.

«Credo che ci sia una difficoltà in sé e per sè, tipica di questi sei copioni – spiega –, vuoi per la complessità della parola vuoi per la complessità dei temi affrontati, (la crisi della società borghese rappresentata nei suoi pilastri, famiglia, lavoro, sesso...), ma queste difficoltà, appartengono a tutti i classici del teatro che oggi vengono affrontati in maniera per così dire liberata dal peso della tradizione».

Perché per Pasolini questa libertà non c’è? «Il di più per Pasolini è dato dal fatto che molti registi non si emancipano dalla figura di Pasolini stesso – aggiunge Casi –. Cioè in particolare la difficoltà numero uno è il bisogno di confrontarsi con i testi attraverso la mediazione del Manifesto per un nuovo teatro e le sue formulazioni teoriche».

Che in qualche modo lega mani e fantasia... «Proprio così – spiega ancora Casi – perché il Manifesto è a suo modo prescrittivio, nel senso che, se tu privilegi il peso della parola questa nega l’azione, se te ne discosti allora si hanno messe in scena di tipo tradizionale borghese o post-borghese».

Casi ha anche illustrato un testo, Nel 46! , sul quale Pasolini è ritornato molte volte in oltre vent’anni e nel quale si racconta della morbosa attrazione di un insegnante per una giovane allieva, che in realtà è un alunno.

«E da un inizio in cui la scrittura di Pasolini era informata al teatro borghese – analizza Casi –, di stampo ottocentesco si arriva nella stesura definitiva nel 1966 a una scrittura infarcita di visioni, di grottesco, di contaminazioni di registrai espressivi che prendono vita dai deliri e dalle proiezioni fantastiche di questo personaggio, il tutto intrecciato con il passaggio dell’Italia dal fascismo alla democrazia.

E nel quale sono già in nuce e temi e contenuti delle sei tragedie in versi».

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