Nico Naldini: «Gigiòn Colussi l’ultimo amico di Pasolini»

CASARSA. «Il miej prin a l’è Gigiòn/ cu na vous di gardilin», cosí Pier Paolo Pasolini in uno dei primi Stroligut ritrae Luigi Colussi, scomparso il 9 febbraio scorso, uno dei ragazzi della cerchia di Pasolini che faceva parte del Coru dai miej fantàs di Ciasarsa diretto da Pina Kalc e utilizzato da Pasolini in alcuni spettacoli in paese: I fanciulli e gli elfi, cui il poeta aveva dato vita nella sua infaticabile e creativa attività pedagogica.
Sono gli anni, immediatamente successivi alla guerra, gli anni dell’Academiuta de lenghe furlane, il cenacolo che riuniva molti giovani di Casarsa e dei paesini limitrofi e che Pasolini impegnava in molte attività, culturali e formative - dalla scrittura poetica alla realizzazione di piccoli spettacoli teatrali e, come detto al coro. Con Luigi Colussi se ne è andato un altro pezzo di quella storia così unica e straordinaria.
«È da Luigi e suo fratello Livio – scherza, ma non troppo Nico Naldini, cugino del poeta corsaro e scrittore – che ho preso la mia selvatichezza». Selvatichezza che non gli ha precluso l’urgenza di dedicare all’amico antico lo scritto che pubblichiamo.
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Le nostre case si fronteggiavano sulla via principale che sfociava nella piazza. Nella piazza c’era un cippo marmoreo come base di un’asta su cui nei giorni celebrativi del Regíme, garriva festosa una bandiera. E noi ragazzi ai suoi piedi eravamo inquadrati e pronti a scattare nel saluto romano.
Accanto a me c’era Livio il fratello minore di Gigiòn, ma Gigiòn non l’ho mai visto in divisa di Balilla. Se ne stava nei campi a lavorare assieme a un vecchio zio, e se ne fregava dei fasti mussoliniani.
Gli abitanti di Casarsa per metà si chiamano Colussi. Un nome antico nato con lo stesso villaggio, iscritto in una lapide devozionale nella chiesetta di Santa Croce come ringraziamento per essere scampati all’ultima invasione dei Turchi.
Anche la famiglia di Gigiòn si chiama Colussi come la mia materna. Per distinguere le varie famiglie, ciascuna ha un soprannome. Quella di Gigiòn si chiama Socolari, la nostra Battiston. La nostra casa aveva qualche pretesa perché mio nonno Domenico, pur mantenendo saldi legami col mondo contadino, nutriva delle ambizioni piccolo borghesi.
La casa di Gigiòn pur essendo stata rimaneggiata nel corso degli anni, manteneva intatto il carattere contadino per rispondere alle esigenze del lavoro. C’era un grande portone per il passaggio dei carri agricoli, la stalla, un cortile che si allargava in un grande orto.
E nato di recente un campo di bocce a due corsie. Perché il padre di Gigiòn, Sìor Pieri, si era allontanato dal lavoro dei campi per adibire una larga stanza del pianterreno a osteria.
Il cuore della casa era la grande cucina dove la madre di Pieri, nonna dei ragazzi, passava tutto il giorno tra fumiganti pentole; una dea madre in grambiule nero che per tre volte al giorno provvedeva al nutrimento di una ventina di familiari.
La casa, il cortile, le stalle e il gioco di bocce sono stati il campo di Marte della mia gioventú. La mia e quella del mio amico e coetaneo Livio.
Gigiòn, di qualche anno maggiore, ci sovrastava con autorità e un po’ di prepotenza. Ci trattava per quello che eravamo: degli implumi a confronto con la sua virilità con qualche segno di baffetti e una formidabile muscolatura.
Ma un giorno che eravamo a lavorare nei campi detti Vacunsas - ogni gruppo di campi aveva nomi differenti - Gigiòn si mostrò benevolo con noi, e nascosti tra le piante di mais già alto, ci insegnò a fumare.
Presa una manciata di quelle barbe che escono dalle pannocchie già mature, le arrotolò dentro una cartina di sigarette. Accesa con un fiammifero divenne una sigaretta che ci passammo di mano in mano. Ci meravigliò tanta degnazione di Gigiòn, tuttavia restò un episodio isolato.
Sìor Pieri di tanto in tanto usciva di casa all’alba per andare a caccia seguito dal suo cane Fatu. Dopo molte preghiere Livio e io ottenevano il permesso di seguirlo con l’intesa che se lui puntava la sua doppietta su una lepre, noi dovevamo restare immobili senza respirare.
Nel lavoro dei campi io cercavo di rendermi utile, ma mi stancavo presto. Gigiòn e Livio, no; il loro lavoro era un programma indifferibile; e allora io vagavo nella campagna assorbendo dovunque visioni e profumi. Ma ogni estate prima che ciascun prodotto arrivasse a maturazione, Livio e Gigiòn partivano per la villeggiatura. (Si fa per dire).
La madre severa quanto basta li spediva a respirare un poco l’aria di montagna a Barcis, nella casa di certi parenti. Durante la loro assenza io ero capace solo di annoiarmi.
Ma la madre di Gigiòn un giorno che ricordo per la felicità, propose a mia madre che accompagnassi il padre di Gigiòn fino a Barcis con la carretta tirata dalla fida cavalla per riportare a casa i due figli.
Detti in smanie per l’inaspettata proposta mentre mia madre stava preparando una sportina di cibo per il viaggio. Partimmo verso le montagne che disegnano il nostro orizzonte. La giornata era caldissima e a mezzogiorno ci fermammo all’ombra di un albero per consumare il nostro pasto.
Dopo attraversammo lo sterminato greto del fiume Meduna e sembrava che ogni cosa tremolando si liquefacesse nella calura. Nella casa dei parenti di Barcis c’era una cucina nera per la fuliggine e tutto coincideva con i miei sogni del mondo montanaro.
Al mattino uscimmo per andare a cercare ciclamini. Gigiòn ci precedeva seguendo con il fiuto le onde profumate. Come nelle fiabe gli anni corrono in fretta.
Livio è diventato capitano di aviazione, comandante di una squadriglia di aerei caccia. Chi l’avrebbe immaginato guardando quel ragazzetto timido col quale ho passato gli anni piú felici della mia vita.
Morto il padre, Gigiòn divenne il titolare dell’osteria. Era sempre allegro, sembrava avere il segreto di gettarsi alle spalle ogni preoccupazione. Tornando a casa lo salutavo, mentre chiaccherava fuori dell’osteria.
Raccontava della sua gioventú, quando Pasolini aveva formato un coro di giovani per far rinascere con le loro voci delicate e potenti l’antica tradizione delle villotte Friulane.
Gigiòn come con noi quando eravamo piccoli, dominava la scena con una voce straordinaria che nasceva all’interno del suo petto vigoroso. Credo che quelli del coro di Casarsa siano stati i piú bei ricordi della sua vita.
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