Nel nome della Grazia: un giallo racconta l’Italia degli anni ’70

Il genere vive un momento non felice dopo anni di gloria. Marsilio pubblica Verasani, scrittrice controcorrente

Jacopo Guerriero

C’è stato un lungo momento, nella storia recente del dibattito letterario del nostro Paese, in cui ogni presa di posizione critica allargava a ipotesi, congetture sul valore dei generi, a riflessioni che, con ingenuità si supponeva eretiche, sul portato di autori poco considerati o, meglio, si diceva allora, confinati in un recinto.

Primi del 2000: massimalismo a serpeggiare, parole chiave poi non condivise, cose come: rigetto-del-postmodernismo, integralismo, no copyright, multiple name, iniziative velleitarie si compivano per lo scotimento della scena.

Si organizzavano convegni. Si citava Ballard (esisteva ancora la fantascienza), si chiamavano in causa i giganti - Dick, Izzo, Manchette. Ellroy era la chiave per una controstoria (più vera del Vero) degli Stati Uniti d’America, King il maestro capace di dirti, tra i pochi, di giovinezza e provincia.

Alle nostre latitudini svolgevano un lavoro (di approfondimento, di provocazione, spesso in rete) autori come Massimo Carlotto, Wu Ming, Gianni Biondillo, o, per altri versanti, Giuseppe Genna, Hans Tuzzi, Ben Pastor, Raul Montanari, Loredana Lipperini. Poi, è cosa nota, la temperie è finita. E un rovesciamento è avvenuto:

Se oggi è realtà acclarata - il krimie dice la sua da sempre, in ambito di critica sociale e del costume sul tempo che si attraversa- una nozione di stile e di ritmo, soprattutto di attitudine critica largamente intesa, ha segnato il passo.

Ai nostri giorni si moltiplicano – eufemismo- investigatrici e investigatori tutti uguali, figli di ridicole produzioni seriali. Una scrittura, sempre più light è koiné. I plot si copiano.

I libri sembrano trattamenti cinematografici. Qualche tempo fa, in queste pagine, altra stella di quel firmamento d’inizio millennio, Sandrone Dazieri-che è stato anche un grande direttore del Giallo Mondadori- ricordava in un’intervista, rilasciata a Nicolò Menniti Ippolito, in occasione della sua partecipazione al “Treviso Giallo”, che «oggi l’enigma appare, in buona parte, slegato dalla realtà». Esiste dunque un’onda di reflusso?

È probabile e, a maggior ragione, non si può evitare di gioire per il fatto che, dopo una infelice migrazione per diversi marchi editoriali, ormai a lunga distanza dall’iconico successo di Quo vadis, baby? (anche al cinema per la regia di Gabriele Salvatores), Grazia Verasani, noirista di razza (ma non solo), abbia trovato stabilmente casa in laguna, presso Marsilio.

Curioso caso letterario. Dopo un iniziale, portentoso successo, un silenzio colpevole si è steso sulla sua opera. Ma, a citare testi molto diversi per natura e forma, Lettera a Dina (Giunti) pare uno tra i libri meglio riusciti per raccontare la complicata storia italiana degli anni ’70 – peraltro attraverso la lente eccentrica, difficile da usare, dell’amicizia al femminile tra le due protagoniste.

O ancora, sempre passeggiando in una bibliografia ormai importante: Non ho molto tempo, oggetto narrativo curioso, impossibile da relegare alla mera autofiction, dedicato al racconto dell’amicizia tra l’autrice e il compositore e direttore d’orchestra Ezio Bosso, avrebbe meritato diversa eco e circuitazione.

E se queste, si previene l’obiezione, non sono opere di genere, ora che è appena arrivato in libreria Iris di marzo (per l’editore veneziano, 15 euro, pp., 137), si resta felici nel ritrovare cristallino, come ai tempi del suo esordio nel giallo, il talento narrativo purissimo di Verasani alla riproposizione di Giorgia Cantini, investigatrice.

Tra i meno scontati dei personaggi seriali. Senza spoiler due note d’ambientazione sulla nuova storia: qui, al centro, c’è una ragazza giovanissima – Iris appunto- assassinata in una notte ancora fredda di primavera. La scena è Bologna, ai nostri giorni, e il contorno è quello di una periferia degradata.

C’è una compagnia di ragazzi ai margini, di cui l’assassinata ha fatto parte. Ragazzi con il coltello, alcuni immigrati. Microcriminalità, genitori tardo adolescenti o sconfitti, vite da bmovie. Eppure: Verasani, ancora, pennella come nessuno. Se il contesto è noto, escono dalle pagine e li porti con te i suoi personaggi.

Uno per uno. La vittima, certo. Ma poi anche tutti questi ragazzi perdenti che le recitano intorno, battuti in partenza o che non hanno saputo ritagliarsi una chance nella vita. Hai perfino l’incredibile sensazione di capirli, di entrare dentro il complicato scrigno della loro anima.

C’è tantissima musica, come sempre, nelle opere dell’autrice bolognese: è una delle chiavi tipiche, classiche di Verasani per dire dei giorni che viviamo, per raccontare scivolando sul velluto. E, ad ascoltare in macchina vecchi pezzi– no, non quelle generazionali del mainstream più sentimentale- accanto a Cantini che gira di notte, come sempre scomoda e politicamente scorretta, in perpetua crisi, in attitudine di combattimento, ci siamo tutti noi adulti che fingiamo di possedere chiavi d’interpretazione del presente che invece sempre sfuggono.

Poi la trama tiene? Resta come un basso costante che, certo, arriva anche alla soluzione che non ti aspetti, all’epilogo imprevisto.

Quello che ti lascia con l’amaro in bocca e un senso di complicata meraviglia. Come un buon giallo deve fare, senza avere rinunciato a raccontarti un pezzo di mondo. 

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