Nel bunker dei mafiosi: crime di Montesarchio fra fiction e cronaca
L’intervista al regista di Glory Hole che sabato 26 ottobre sarà al Cinecity di Lignano Sabbiadoro. Il magistrato Dario Grohmann parlerà di camorra in regione

Il cinema si affida con somma speranza agli sguardi inattesi di qualcuno che decida di rompere le regole battendo strade sterrate. Il caso ce l’abbiamo sottomano pronto a farsi vedere (e notare) al Festival “Lignano noir”, sabato 26 ottobre alle 20.30, al Cinecity di Sabbiadoro: è “Glory hole” di Romano Montesarchio (nella foto), in dialogo con il responsabile della cultura del “Messaggero Veneto”, Oscar d’Agostino, con Francesco Di Leva. Interverrà il magistrato Dario Grohmann che parlerà di Camorra in Fvg. L’appuntamento col cinema concluderà un pomeriggio energico fra la presentazione del libro di Franco Forte “L’alba di Cesare” (Mondadori), alle 17 in biblioteca con Manuel Massimiliano La Placa, e la consegna degli allori ai vincitori dell’ormai celebre “Premio Scerbanenco”.
Cambia sostanzialmente il punto di vista e la soggettiva, per dirla in gergo. Ciò che inquadra il protagonista del lungometraggio di Montesarchio è il suo sporco bunker, nessuna sparatoria, nessuna strage, nessun capomafia che ordina carneficine. Solo un tizio costretto a nascondersi per salvare la pellaccia con un unico pertugio utile per guardare una minima parte del mondo esterno.
Al fine di esaminare meglio il sistema cerchiamo di capire con lei il gran movimento contemporaneo di gialli e di thriller in un’epoca che richiede con forza il mistero e, perché no, anche il sangue.
«Viviamo un periodo storico dove tutto è osservato, spiato e socializzato. Gli enigmi e l’occulto calamitano l’umanità che ha un bisogno primario di farsi affascinare da un qualcosa di sconosciuto e di impalpabile. La spiegazione è strettamente umanistica. La parte commerciale, invece, cerca di accontentare i target cinematografici ed editoriali che spingono per la creazione del prodotto misterioso. Il crime ha un’alta quotazione e ciò spiega anche la composizione di un canale televisivo dedicato. Se vado da un produttore proponendogli un thriller probabilmente mi ascolterà con interesse».
Ciò che inquieta è scivolare nella finzione da una realtà altrettanto allarmante.
«Questo è vero, ma la stagione offre agitazione in ogni campo, vero o finto che sia».
La specialità della casa è il docufilm, al quale lei si è dedicato con passione sin dagli inizi, scovando fra l’altro pezzi d’Italia per nulla confortanti.
«Una ricerca spontanea germogliata soprattutto dalla voglia di verità. Un approccio antropologico ben preciso appena ho sposato l’esigenza di mettermi dietro una macchina da presa. Le tematiche sono legate inevitabilmente alla mia terra: Caserta, Napoli e dintorni. Ho raccontato in maniera autonoma quel che conoscevo, ovvero società e criminalità. Quindi mi ritrovai a tiro una storia, quella di “Glory hole”, appunto, che esplora un bunker, il luogo peculiare dove i mafiosi trascorrono la loro latitanza. Un sottosuolo raramente raccontato nei film tematici su mafia, camorra e ‘ndrangheta. Pur cercandolo, non trovai alcun latitante disponibile per un docu e, a quel punto, scelsi la fiction».
Con un’opera che anticipò questa, andata in onda su Discovery dall’esplicito titolo di “Inside bunker”.
«Esatto. Un viaggio nei nascondigli più inesplorati della criminalità, seguendo il preziosissimo lavoro della “Catturandi”, una forza della Polizia specializzata nella ricerca delle segrete costruite dalla malavita soprattutto in Sicilia e in Calabria. Allora mi limitai alla sceneggiatura, ma da uomo ostinato quale sono cominciai a lavorare su un possibile film».
C’è del rischio nel suo mestiere, Romano? È stato mai minacciato?
«Quando girai la “Domitiana” — un approfondimento su una strada consolare dei romani che attraversa una parte del Sud fonte di mille problemi dall’abusivismo alla droga, fino all’immigrazione — mi ritrovai un’auto sfondata, una denuncia da parte di un politico locale e, persino, il lancio di pietre. Diciamo di aver avuto riscontri immediati dopo aver curiosato forse troppo negli affari sporchi della delinquenza. Anche quando scrissi e girai “Black mafia”, una serie commissionata dalla Rai sul fenomeno nigeriano in Italia, la parte cattiva della comunità cercò di spaventarmi e fui costretto a subire un processo per diffamazione. “Chi per mare va, questi pesci piglia”, si dice dalle parti nostre».
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