Il Macbeth di Daniele Pecci sbarca in Friuli: «Un’opera che indaga sulla natura profonda del male»
Lo spettacolo passerà da Spilimbergo, Palmanova, Gemona, Tolmezzo e Cividale. «Affrontare questo testo è una conquista»

In un contemporaneo sanguigno e sanguinolento, quattrocento anni dopo la prima messinscena, un “Macbeth” scespiriano è quel che ci vuole per ripassare l’apologia del male, proprio nell’annata delle cinquantasette guerre nel mondo. Dice bene Daniele Pecci, traduttore, regista e interprete dell’edizione che sta per affacciarsi sulle platee friulane: «Macbeth è sempre stato tristemente di moda, nei secoli, a ben guardare le continue e mai domate nefandezze di una certa umanità sull’altra».
Il circuito Ert ci regala sei tappe della tragedia. In scena con Pecci ci saranno Sandra Toffolatti e Duccio Camerini, Vincenzo De Michele, Michele Nani, Gabriele Anagni, Mauro Racanati, Giovanni Taddeucci, Giorgio Sales, Silvio Laviano, Pier Paolo De Mejo, Lorenzo Rossi, Tommaso Tampelloni. Dal 2 dicembre a Spilimbergo. Il 3 a Palmanova, il 4 a Gemona, il 5 a Tolmezzo e il 6 a Cividale.
Anche lei, Daniele, si è ritrovato a essere sedotto da questo personaggio cardine della prosa di tutti i tempi?
«Affrontarlo è una conquista per un attore affascinato dal grande teatro di repertorio, al pari di altri classici quali Amleto ed Edipo. È un testo immenso e poetico che indaga sulla natura profonda del male nell’uomo, interrogandosi sul perché la malvagità non conosca fine. Bisogna capire se il male sia una forza esterna capace di influenzare l’essere umano, o se si palesi all’interno dell’individuo. L’interrogativo è centrale nello spettacolo e, spero, provochi una riflessione da parte del pubblico».
Nessuna operazione di riadattamento?
«No, guardi, il mio atteggiamento è estremamente rispettoso nei confronti dei capolavori. Ho tradotto personalmente l’opera e penso che la purezza delle parole abbia il sopravvento su qualunque manomissione al fine di modernizzarne il senso. La mia più grande gioia è quando gli spettatori vengono a salutarmi in camerino confessandomi di aver beneficiato delle suggestioni visive e di un testo ascoltato religiosamente fino all’ultima battuta».
Nonostante la necessità di sperimentare, il classico ha sempre una sua buona ragione di finire sul palcoscenico. Se non altro per istruire le nuove generazioni…
«Proprio per questo ho scelto la semplicità dell’esposizione senza ricorrere a inutili elementi accessori. Uno spettatore vergine in sala diventa il mio punto di riferimento».
Parliamo del teatro di regia.
«Penso che la sua stagione sia finita, sebbene abbia avuto un ruolo decisivo nell’evoluzione teatrale. Oggi molti registi danno per scontate troppe sovrastrutture intellettuali, finendo così per escludere buona parte della platea. Confido nell’artigianato teatrale, dove il copione è sovrano».
Nell’ambiente artistico questo titolo in particolare ha la fama di essere maledetto e gli attori non lo nominano volentieri, usando abili espressioni per nominarlo. Lei è superstizioso?
«Diciamo ciò che serve senza esagerazioni. La credenza è più legata all’opera lirica che al teatro. Certo, comunque presto attenzione a quel che accade. Noi tendiamo a essere scaramantici perché la nostra non è un’attività razionale, bensì coinvolge forze e sensazioni che sfuggono al controllo».
Di lei ricordiamo a Lignano un magnifico Oscar Wilde in un assolo intrigante. A proposito di Friuli, ci sono episodi a lei cari di questa terra?
«Mi fa piacere che menzioni quel lavoro. La vostra è una regione ricca di bellezza. In trentasei anni di carriera mi è capitato più volte per il cinema e la televisione di soggiornare in quel lembo di nord-est. Tra tutte le doti ce n’è una che m'interessa particolarmente: da voi il teatro funziona davvero. Avete una rete di strutture che non credo esistano altrove».
Se le dico “Il bello delle donne” e “Orgoglio” le batte un po’ il cuore?
«La popolarità ottenuta con le due serie è stata cruciale per la mia carriera, permettendomi di realizzare progetti come questo. Ricordo i provini vissuti come partecipassi a una roulette russa. Fu il produttore a volermi, in Rai la pensavano diversamente. Quel giorno pescai il jolly. Lo feci fruttare bene perché conoscevo il meccanismo del gioco avendolo studiato per anni». —
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