Lo scrittore Angelo Floramo, figlio della frontiera: «È una linea che spezza e ferisce»
Anticipiamo un brano dell’intervento che lo studioso terrà a Percoto. L’intellettuale friulano è stato insignito del Premio Risit d’Aur 2024

UDINE. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore e del Premio Nonino, una parte dell’intervento che lo scrittore friulano Angelo Floramo, insignito del Premio Risit d’Aur 2024, terrà sabato 27 gennaio alla cerimonia di consegna del riconoscimento.
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Ho sempre creduto, e ne sono ancora profondamente convinto, di essere un figlio della frontiera. Questo spazio innervato da infinite intersezioni che ne graffiano il profilo, mosso e plurale proprio come il paesaggio in cui sono nato: il Friuli di morena, tutto campi, colline, vigne, sassi e fiume. Lo riconosco come la cifra alle volte ruvida e altre malinconica del mio andare. Più spesso sognante, mossa dal vento dell’utopia, che gonfia le vele e promette approdi mai prima tentati.
Non potrei mai vivere se non in una terra meticcia come questa, che ha saputo dare ricetto ai miei antenati, mossi da disperate profuganze e fughe che sembravano senza redenzione, non dissimili da quelle che oggi un’umanità minore continua a calpestare, lungo gli stessi bordi del mondo percorsi da loro. Ombre rese invisibili dalla nostra indifferenza, incapace di guardare.
“Foresti”, come lo sono sempre stati i miei antecessori, birillati fin qui da un altrove improbabile e lontano, non diversamente da tutte quelle altre genti, le mie genti, le nostre genti, che nei millenni si sono sedimentate tra le rocce delle montagne e l’acqua salsa della laguna, impastando insieme la folle visionarietà dei nomadi e la tenacia terrigna dei contadini. Ho anche sempre sostenuto, perché tale è la grammatica della mia vita, che la Frontiera sia profondamente femmina.
E io ne sono perdutamente innamorato. Perché come diceva un altro ramingo, “voi donne (che) avete intelletto d’Amore”. Ovvero sapete leggere dentro a ogni cosa e lo fate con Amore. Per questo la frontiera, che è donna, è capace di inclusione. E’ più incline agli abbracci che agli schiaffi, all’amplesso scomposto, selvatico e ribelle che la rende seducente, erotizzante, libera. Matria più che Patria. Per bandiera ha scelto la meraviglia della Vita, non un altare da lordare con il sangue dei propri figli.
La frontiera resiste. Rimane, per vocazione o per condanna. Si radica con rabbia. Accoglie, si prende cura di chi si perde fra le sue pieghe senza mai chiedere conto di chi sia, senza pretendere che esibisca un documento per passare o che renda ragione di dove viene o verso dove è diretto. Quando la si attraversa non si ha mai la certezza di averne scollinato i labirinti. Anche per questo qui da noi, e in tutte le terre simili alla nostra, rimangono impigliati gli umori, i sapori, gli accenti di tutti coloro che ci sono passati, e che hanno sempre saputo bene quanto l’alterità sia soltanto uno specchio dentro al quale intuire quello che siamo, o che potremmo diventare.
Chi vive nel cerchio di un orizzonte come il nostro sa bene che l’altro siamo noi. In contrade come queste abbiamo imparato a far scivolare le nostre esistenze, inevitabilmente randagie, tanto da diventare nei secoli una moltitudine. Di volti, facce, occhi, parole.
La pluralità assoluta coabita ovunque. Fin dentro a ciascun individuo che è magica topografia del tutto. Anche per questo non possiamo che amare la pace, noi che siamo donne e uomini della Frontiera, detestando la guerra con tutto l’umore che ci intride le viscere, giù nel profondo, e che si stempera in canto, talvolta. Più spesso in bestemmia o in invettiva.
Comunque in preghiera, rivolta al dio degli erranti. L’unico in cui sono capace ancora di credere.
Il confine invece, quello lo sento lontanissimo da tutto ciò che sono e che siamo. E’ una linea che spezza e ferisce, tracciata da mani maschie, prevaricanti, che amano la guerra per la quale sono sempre disposte a svinare il sangue dei figli, purché siano quelli degli altri. Non conoscono il mistero dei ponti, semmai la fredda opposizione dei muri. Presidiano la terra, dopo averla violentata, legandola con il filo spinato, crocifiggendola ai cavalli di frisia.
Mio padre è cresciuto in un piccolo villaggio carsolino, avvolto dalle vigne che spinano Terrano, sull’altopiano che unisce Gorizia a Trieste. Sveto, oggi in Slovenia. Profugo e migrante nel tempo in cui gli stivali fascisti calpestavano l’Europa, mi ha lasciato in eredità la consapevolezza che non esistono popoli cattivi. E che solo chi conosce, e ricerca, e capisce, alla fine riesce anche ad amare. Alle volte con dolore, sempre con consapevolezza, e ben oltre gli orrori che il grembo della Storia sa partorire. Per colpa sua scorre dentro di me sangue balcanico.
Per colpa sua vado ramingando, da sempre, da quando ne ho memoria, sull’orlo dei mondi, cercando il mio Oriente perduto. Dall’Adriatico a Vladivostok, da Gorizia a Cracovia. Mi sono riconosciuto nelle osterie di Varsavia, nel Rynek d Cracovia, nei ghetti di Lublino. Ho contagiato le mie figlie. Continuo a trasmettere l’identica malattia alle mie studentesse, ai miei studenti, che ogni anno porto con me, per dimostrare loro che solo chi ha il coraggio di perdersi alla fine si ritrova, e che dalle crepe più tragiche che la Storia ha segnato possono nascere inattese fioriture.
L’umile parietaria vince sempre la monolitica ottusità del muro. Durante uno dei tanti viaggi mi sono inciampato, assieme a loro, nel dolore della conca di Srebrenica. In quella tragedia che si è consumata, appena prima di ieri, a pochi chilometri dalle nostre case, nella totale inconsapevolezza della nostra indifferenza.
Quando a Mostar veniva giù il ponte, a Sarajevo bruciava la Vijećnica, la grande biblioteca, quando i tetti di Dubrovnik venivano bombardati e i serbi delle Krajine in Croazia erano costretti ad abbandonare i loro villaggi, ridotti in macerie, lì i maschi dai sedici ai sessantacinque anni finivano nelle fosse comuni, le donne, anche giovanissime, subivano il destino feroce che impone ad un corpo, fatto di carne e di dolore, di diventare terra devastata, trincea dell’odio e bandiera di ogni disumana violenza.
La storia maschia si accanisce sulle donne perché sa che sono la parte migliore del Mondo. Umiliare una donna, ferirla, violarla, è come abbattere la colonna portante di una casa. Per questo diventano, le donne, obbiettivo dei carnefici. Sempre e ovunque. Non perché sono le più deboli. Ma proprio perché sono le più forti.
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