L’Italia e il coraggio per credere nel futuro

Il dialogo tra Calabresi e Cerno su come riaccendere la speranza tra i giovani. Rassegnati, non vinti. E il circolo della stampa nomina soci onorari i due direttori
FOTO MISSINATO - PNLEGGE CALABRESI SPAZIO ITAS
FOTO MISSINATO - PNLEGGE CALABRESI SPAZIO ITAS

PORDENONE. Ci vuole tempo per aver paura. Quando la dice questa frase, Giovanna Ruaro ha un gatto sulle gambe e un vestito a fiori che indossa sui suoi 73 anni. E forse non immagina nemmeno che è questa la semplice, evidente condizione in cui annaspano generazioni di ragazzi dall'altra parte del globo, quello nostro.

Giovanna è una suora comboniana, dall'età di vent'anni in Uganda, ed è solo una dei protagonisti laterali che popolano l'ultimo libro di Mario Calabresi "Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa" presentato a Pordenonelegge, in una vivace e divertente conversazione con Tommaso Cerno, direttore del Messaggero Veneto.

Un incontro aperto dalla consegna del titolo di socio onorario del Circolo della Stampa di Pordenone ai due direttori per i loro meriti nel giornalismo d’inchiesta e in difesa dei diritti civili.

Pubblicato da Mondadori il libro di Calabresi ha una genesi curiosa raccontata divertendo. Cerno accenna «nell'umido clima vietnamita che segna questi giorni pordenonesi» alla loro comune passione per De Andrè e a come tutto sia nato da una conversazione con Paolo Rumiz.

Incontrando i ragazzi delle scuole, conferma Calabresi, la domanda alla quale si trova sovente a dover rispondere è se valga la pena seguire i propri sogni, o se non sia meglio seguire una strada indicata da altri. I consigli un po’ si ripetono, fino alla volta in cui un ragazzo gli dice che quello che pensano è che non ci sia spazio per la loro generazione. Che le condizioni esterne siano molto più forti di qualunque sogno e che l’unica strada sia la fuga, dall’Italia e dal tempo in cui sono costretti a vivere.

Pochi giorni dopo, alla presentazione del libro di Rumiz “Un bene ostinato” - ecco il richiamo a De Andrè sottolineato da Cerno - fa emergere casualmente la storia di due ragazzi e la loro particolare lista di nozze: 22 letti per adulti, 9 lettini per bambini, culle per neonati, lenzuola, un elettrocardiografo, un lettino operatorio, una lampada operatoria, attrezzi per la chirurgia.

I due, Gianluigi e Mirella, 26 anni lui 27 lei, sono gli zii di Mario Calabresi, una storia familiare che non era uscita dal riserbo di chi le cose le fa piuttosto che raccontarle.

E cosí il passo verso la ricerca di cosa era diventata quella lista di nozze oltre quarant’anni dopo, la voglia di trovare un antidoto alla rassegnazione di una generazione di ragazzi che non se la merita, porta Calabresi al Saint Kizito Hospital di Matany, in Uganda, dove l'8 dicembre del 1970 era stato inaugurato il primo reparto di maternità.

La conversazione scivola leggera, nonostante i temi e le tragedie che racconta. La decisione di andare in Africa, presa al bancone del bar Zucca, primi anni '70. Il primo intervento chirurgico di suo zio, un uomo con una lancia conficcata nel collo, quando mai negli anni di studio Milano era capitato un caso simile?

O la storia di Simonetta Masaro, come gli ricorda il direttore Cerno riportando la conversazione a esempi di casa nostra. Trent’anni, specializzata all’Università di Trieste e poi piombata a fare esperienza in Africa, dopo una giornata di interventi racconta di un bambino di tre anni ustionato, le cure necessarie non permettono che torni a casa prima di due mesi, una condizione che costringe la madre a fare una scelta drastica: tornare a sfamare i quattro figli rimasti nella capanna, o curare il più piccolo in ospedale.

Forse l'avrà immaginato che andando via il piccolo si sarebbe lasciato morire, ma ha dovuto decidere. La vita di quattro per quella di uno. Difficile da spiegare a un mosungo. Ma non c'è solo Africa nelle storie di «ragazzi che non hanno avuto paura di diventare grandi».

Cerno suggerisce quindi la storia di Elia, «in un paese dove si rottama tutto in pochi giorni, forse è la trasmissione del sapere che manca» conducendo il dialogo alla realtà di oggi. Elia infatti ha 23 anni, è in barca col padre pescatore dall’età di dodici, a guardare come progressivamente i pescherecci a Genova in pochi anni da 22 si siano ridotti a solo uno.

Poi l’idea: trasformare le tecniche di pesca, anche se tutti dicevano che non era possibile. E da uno i pescherecci sono già diventati due.

«Se si è sempre fatto cosí non è detto che non ci sia un modo diverso di fare le cose». Ha ragione Elia, basta non dare il tempo, alla paura, di mangiarsi la speranza.

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