L’identità dei friulani non sta nelle radici: è un patrimonio che si tramanda con le parole

“Perché mi definisco friulano “. Probabilmente perché ho un sangue meticcio. Bastardo, secondo alcuni. Pre Checo Placereani diceva che la faccia di un friulano è la mappa topografica in cui si possono leggere tracce di Goti, Longobardi, Slavi. Nel mio sangue c’è del siciliano, del provenzale, dello spagnolo, del bavarese, dello sloveno (e chissà cos’altro ancora) mescolato insieme a quella vena che ha innervato le carni scavate dalla fame di antenati che nei secoli sono stai contadini tra quei campi che dal ciglione sul Tagliamento di Aonedis (Savoneles) si perdono tra i gelsi e il granturco fino alle murate di Borgo Pozzo (Borc di Poç), a san Daniele. Per questo mi sento friulano nel sangue. Ma molto di più nella memoria.
Sono convinto infatti che l’identità dei friulani non stia nelle radici, destinate a morire là dove sono nate, ma che piuttosto sia un patrimonio che si tramanda con la potenza della parola, ancestrale, con lo struggimento del canto, lo straniamento della leggenda che alle volte si fa “epos”.
Il friulano è infatti nomade, migrante, errante. Lo è da sempre. Saranno gli antenati Kurgan, che disseminarono di tumuli la pianura, lungo la linea delle risorgive. E io in questa inquietudine dell’andare, che rende un po’ sognanti e malinconici, mi ritrovo pienamente. È la nostalgia che alla fine ci riporta là dove crediamo sia la nostra casa, altrimenti continueremmo a camminare fino a “Lusimpon”, come dicevano i vecchi. O a “Cjà dal Djaul”. Dove in molti, troppi dei nostri padri sono finiti, trascinati dai gorghi della Storia.
Mi sento friulano perché so di appartenere ad Aquileia. A quella “mater antiquissima” che nei millenni è stata il seme fecondo di Alessandria d’Egitto, fino quassù, nell’alto seno del bacino adriatico. Forse per questo non inorridisco – come tanti prigionieri del loro non sapere – all’idea che ci sarà anche un po’ di Africa nel futuro delle nostre genti. Scendere dentro la cripta della Basilica – e devo farlo più volte all’anno, altrimenti non riesco a ricostruire con chiarezza la mappa celeste delle costellazioni che guidano il mio passo – significa per me mettermi in sintonia con questa nostra terra. Ascoltarne il respiro profondo.
Forse fa di me un friulano quel senso di straniante malinconia che mi prende nelle sere di dicembre, quando l’aria si fa frizzante e il cielo regala tutto lo stupore del rosso, ad occidente. Mi piace l’odore della terra, le stoppie che bruciano lontano, chissà dove. È in quei momenti che sento profondo bisogno di una tana. Di un luogo in cui spartire il tempo e lo spazio con coloro che amo, accendendo il fuoco dei lari (fogolâr) mentre le ombre si fanno di gelo.
Aggiungendo una manciata di farina in più nell’acqua che bolle, perché ci sarà sempre la possibilità che un povero, o un dio travestito da mendicante, bussi alla porta di casa.
Sono profondamente friulano quando sento accendersi dentro di me quella rabbia antica contro ogni sopruso e che da uomo di pace quale sono potrebbe trasformarmi in un guerrigliero, alla bisogna. Che con roncola e falce scende a rivendicare la terra comune, che è di chi la lavora. Così andavano gridando i contadini, in quel giovedì di Carnevale nel 1511. Così si ribellavano con fierezza le donne e gli uomini di un Friuli orgogliosamente libero, in quel terribile 1944, quando la Carnia seppe resistere agli stivali del Terzo Reich.
Sono un friulano perché le cose più intime che avrei dovuto scrivere preferisco tenerle per me. Chiudendo qui queste mie povere note.
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