L’eroica resistenza dei bersaglieri nella tragica campagna di Russia

UDINE. Aleksander Perminov ha una grande passione per il metal detector e da anni perlustra le campagne nella zona in cui vive, la città russa di Meshkovskaya, dove avvenne una durissima battaglia a fine 1942.
Dalla terra lì affiorano di continuo testimonianze e oggetti appartenuti ai soldati italiani morti, fatti prigionieri o dispersi, di cui nulla si è saputo. Segni insomma per cercare di dare una risposta a chi, a casa, dopo oltre settant’anni, aspetta ancora di sapere quale destino abbiano avuto le “centomila gavette di ghiaccio”.
Aleksander ha continuato l’opera del nonno che decenni fa, durante i lavori per costruire una diga, trovò le sepolture di molti nostri militari in fosse comuni. Come si sa, sono ricerche pazienti e difficili che, in base ai rinvenimenti e alla fortuna del caso,
possono fare chiarezza su dove avvennero i combattimenti o su com’erano localizzati i campi di prigionia russi. Davanti a una folta collezione di medaglioni, orologi, anelli, monete, occhiali, distintivi e (più raramente) anche le preziose piastrine con i dati anagrafici dello scomparso, il piccolo Indiana Jones della steppa dice: “Io lo faccio perché trovare questi reperti mi dà molta soddisfazione morale. So che a ognuno di essi è legato un possibile mistero da risolvere, venendo incontro alle attese di tante famiglie”.
Parole sincere e significative, apparse ora in un libro dell’editore Gaspari di Udine che continua così ad alimentare la sua collana storica per far luce sugli aspetti meno noti delle guerre e su chi, invisibile e sconosciuto, vi perse la vita con un sacrificio silenzioso.
In “Prigionieri della steppa” (210 pagine, 19 euro), Giovanni Di Girolamo narra un capitolo poco noto nella tragica campagna di Russia che, grazie anche ai bellissimi romanzi di Rigoni Stern, Revelli, Bedeschi, ha fatto luce sull’eroismo dei nostri alpini.
Stavolta protagonista diventa il terzo reggimento bersaglieri inquadrato nella divisione Celere, un reparto d’élite composto da tremila uomini, comandati da un veterano della Grande Guerra, il novarese Aminto Caretto, e confortati da un personaggio straordinario come don Giovanni Mazzoni, l’unico cappellano a essere stato decorato con due medaglie d’oro.
Di Girolamo ricostruisce le vicende belliche in cui venne coinvolto il reggimento e lo fa dopo essersi messo sulle tracce di uno zio bersagliere, Vincenzo, scomparso al fronte nel dicembre del 1942.
Il libro propone dunque un cammino per capire i luoghi, le situazioni, gli aspetti militari e anche la sopportazione umana di chi si trovò coinvolto nella tempesta di fuoco, in cui la divisione Celere perdette 6350 uomini e l'80% dei mezzi. I bersaglieri, come dimostra la ricerca di Di Girolamo, furono davvero degli eroi per come si comportarono pur dovendo subire sulla propria pelle difficoltà di ogni tipo, compresa la solita disorganizzazione a livello di comandi.
Sono capitoli dettagliati e minuziosi, per indicare le responsabilità di chi sbagliò e il coraggio individuale di chi, a mani nude, affrontò l'apocalisse. Alla fine dell’indagine, svolta direttamente anche nei luoghi nella steppa, l’autore non riesce però a sapere con precisione quando e dove lo zio morì o venne fatto prigioniero.
A un certo punto l'associazione russa Vojennyie Memorialy sembra aver risolto l'enigma, ma invia i dati riguardanti un soldato quasi omonimo. Allora Di Girolamo si sente svuotato, esausto, ma lo sconforto dura poche ore perché poi ricomincia non volendo arrendersi al “gioco del fato”.
A dargli forza è l'ultima lettera spedita da Vincenzo e conservata gelosamente in famiglia, dove scrive: “Ho paura che questa infinita distesa di neve mi copra per sempre. Ho paura di essere dimenticato”.—
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