Le profughe del campo di Diavata si raccontano in cinquanta scatti grazie al fotografo Mattia Bidoli

Primo giorno di dicembre 2022. Una donna e un bambino cercano di accendere un fuoco sotto la pioggia, per scaldarsi.
Mattia Bidoli, friulano di Aiello è al telefono, collegato dal campo profughi di Diavata, in Grecia e ci racconta in diretta quello che vede. A giorni tornerà in Friuli per l’inaugurazione della mostra “They took away our voice. So we will tell our story through pictures instead”, (Si sono presi la nostra voce. Allora noi racconteremo la nostra storia con le immagini).

L’esposizione ideata dal Circolo Fotografico Palmarino in collaborazione con le associazioni Quick Response Team e Naomi e con il sostegno del Comune di Palmanova, apre domenica 4 dicembre alle 11.30 e ospiterà fino all’8 gennaio, nella polveriera Garzoni, oltre 50 scatti di donne che frequentano la scuola di fotografia del campo profughi di Diavata.
I loro lavori apparsi su quotidiani e magazine internazionali (Cnn, il Venerdì di Repubblica), si sono aggiudicati premi e riconoscimenti tra cui il “Single Shot” Festival della fotografia etica; il World Peace Photo Award; il First prize photography “Champion of Equality; il secondo posto a “Roma Fotografia”.
Quante persone ci sono al campo dove si trova ora? E perché si trova lì? «Non posso dirvi quanti siamo, è un’informazione sensibile. Sono operatore umanitario da 18 anni. Qui ho trovato il “safe space” creato dall’Ong Qrt (Quick Response Team) per la popolazione femminile del campo profughi di Diavata, a nord di Salonicco. Faccio da tutor del progetto la “Photography School”, nata nel novembre del 2020 all’interno di Casa Base».
Quante donne hanno accesso alla scuola? «Sono quaranta, tra i 14 e i 34 anni, provengono da Afghanistan, Iran, Kurdistan, Iraq, Siria e hanno alle spalle storie di oppressione, di paura, di dolore, ma anche di speranza e riscatto. Abbiamo creato un’aula di fotografia dove le ragazze e donne che vi partecipano possano sentirsi al sicuro e libere di esprimersi. Fotografare è un mezzo per creare una relazione, un mezzo per guardare agli altri e al mondo in modo personale, intimo, ti stimola a esplorare, a conoscere e conoscerti. Ti insegna a non avere paura. Queste donne hanno all’attivo diverse mostre fotografiche in Europa e collaborazioni di prestigio anche con l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), Medici senza frontiere, Art 4 Humanity e diverse realtà».
Cosa le chiedono queste donne, quando vi trovate in aula? «Sono donne che non hanno una voce, e sono le più colpite dalla situazione. Sono madri, sorelle, figlie, mogli, giovani sole o con famiglia. Non sono abituate a chiedere. Nessuno le ascolta, nemmeno i Governi. Per me all’inizio è stato molto difficile. Anche perché sono un uomo. Ero visto come un altro occidentale che veniva a fare le foto e poi se ne andava. Adesso il rapporto è di piena fiducia. Qualcuna mi chiama zio, altre fratello. Una ragazza mi chiama mamma».
Da quanto tempo sono al campo e che prospettiva hanno? Troveranno un Paese che le accolga? «Vengono da paesi in guerra. C’è una ragazza che è arrivata a 11 anni e ora ne ha 15. Non potete avere idea di cosa significhi a quell’età vivere in un campo come questo, senza possibilità di andare a scuola, senza avere accesso al cibo, vivendo in un container. Quando mi hanno detto di venire qui ero a Mossul. Ah, mi sono detto, vado in Grecia, Europa. Qui si può arrivare con lo stesso aereo che si prende per andare in vacanza. Ma l’Europa mi creda si ferma qui, si stanno violando tutti i diritti».
Come è iniziata la sua storia? «Frequentavo l‘Istituto Percoto, a Udine. Un giorno ho letto una frase: “lascia il mondo meglio di come lo hai trovato”. Così ho cominciato a fare il clown in ospedale per i bambini. Una Fondazione ci ha chiesto di andare in Bielorussia. Ho accettato. Facevo il mago e insegnavo ai bambini del Libano e del Kossovo. Poi sono andato in Siria, Pakistan. Con me avevo sempre la macchia fotografica».
Dov’è la sua famiglia? «Nonna e sorella sono ad Aiello. A settembre sono tornato per il matrimonio di mia sorella. Ma ho un’altra nonna in Siria, una mamma in Libano. La mie famiglie sono nel mondo, un mondo che spero di lasciare migliore di come è adesso».
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