Lago e l’antiretorica del Piave il grande fiume della Storia dove si è saldata l’unità d’Italia

Nell’anno del centenario del Primo conflitto mondiale l’associazione Amici di Giorgio Lago ha riproposto la lettura dell’articolo “Un secolo dalla Terza Battaglia sul Piave che mise fine alla Grande Guerra”.

Giorgio Lago

«Si pensa che Piave voglia dire acqua che scorre; e il fiume del Veneto ha fatto scorrere un paesaggio, una cultura, una natura di faggi sassi cornioli anguille e pettirossi, un amore di popolo e intellettuale che fece dire allo scrittore Giovanni Comisso: «È il mio Eden».

Era un fiume femmina, la Piave, diventato per la prima volta maschio con il poeta Carducci. Quasi un destino, il Piave avrebbe via via perso la tenerezza del dialetto preparandosi in tempo a mormorare “non passa lo straniero”. È un fiume cippo, una golena del ricordo, un’isola dei morti e dei pensieri, un fiume che ha visto la Storia maiuscola straripare di sangue nel suo letto con la Grande Guerra mondiale, prima vera esercitazione dell’unità d’Italia, costata ai nostri padri, nonni e bisnonni più di seicentomila morti.

«Entra in scena il Piave», così Mario Isnenghi e Livio Vanzetto sintetizzano storicamente il 1917, mentre un fante senza nome scrive: «Tutti eroi al Piave o tutti accoppati».

Tra Caporetto e Vittorio Veneto, tra la rotta e la vittoria, ci fu di mezzo il Piave che permise nel dopoguerra di battezzare tante bambine Vittoria o Redenta. La chiamano “leggenda”del Piave; “Il caimano del Piave” era il titolo di un film; Nervesa, Moriago, Sernaglia... si completano con “della battaglia”.

Sui ponti che attraversiamo ogni giorno nel distratto caos del traffico, i gialli cartelli stradali lo identificano come “Fiume sacro alla Patria”, la patria come Heimat direbbero i tedeschi, la patria spirituale, la stessa che dal Grappa al Piave, dal Pasubio all’Altopiano di Asiago teneva insieme soldati veneti e siciliani, friulani e pugliesi, ma che oggi fa fatica a identificarsi quale richiamo civile della società e/o della politica.

Pur considerando la retorica più fastidiosa di un prurito, a mio parere le lontane date del Piave sacro alla patria sono quanto di meno retorico si possa oggi immaginare.

Di quella storia della Sinistra e Destra Piave nulla si tramanda di magniloquente, prolisso, enfatico, autocelebrativo o declamatorio a scoppio ritardato, nulla di retorico appunto.

Semmai il contrario. I monumenti del Piave sanno bene che cosa fu la guerra Grande, la più grande trincea del morire e del sopravvivere con l’eroismo anonimo di milioni di uomini senza medaglia d’oro, di un milione di profughi nel solo Nordest di oggi, di sfigurati invalidi, di contadini veneti sradicati, di fame aggiuntiva alla fame di sempre.

Una storia di stragi, di sconfitte, di errori, di rivincite e di controffensive di soldati italiani degni di un vecchio elogio di Napoleone.

Storia di paura, di diserzione, di fucilazioni per tenere su il morale delle truppe insidiate dal “disfattismo”.

Di errori strategici, di reticolati e di mitragliatrici sfidate in massa. Di pallottole austriache deformate perché le ferite ferissero per sempre. Non un miracolo finale, sosteneva Indro Montanelli, ma una storia senza pietà. Non sono retorici gli Alpini; non lo è da Nervesa lo sguardo sull’ansa del Piave: chi vi intravedesse soltanto il corso di un fiume dimostrerebbe tutto il deficit umano dell’oblio.

Nemmeno l’espressione “razza Piave” si nutre di cerimonia o, peggio, si presta all’uso di parte. Il Gran Borghese laico Bruno Visentini, che una volta scrisse sul Corriere un colto elzeviro in dialetto trevigiano, ne ricostruisce così la nascita: «Il Piave diventa imponente nei momenti di piena e con il suo largo letto dà il senso della forza».

Per questo, oltre che per il carattere tenace e laborioso delle popolazioni sulle due rive del fiume, e anche perché dopo la rotta di Caporetto esso divenne la linea di difesa dell’esercito italiano, i trevigiani amano spesso chiamarsi “razza Piave”.

I calciatori “rassa Piave” erano la passione dell’Omero del Po, Gianni Brera, da lui pensati come un’area caratteriale del pallone che dal Piave arrivava fino all’Isonzo.

I calciatori erano la passione dell’Omero del Po, Gianni Brera, da lui pensati come un’area caratteriale del pallone che dal Piave arrivava fino all’Isonzo.

I “rassa Piave”, gli aveva raccontato un vecchio allenatore trevigiano “no tradisse mai”. Una nozione quasi materna di nerbo.

No, nessuna salmodia di circostanza.

Qui, lungo il Piave e tra i sapori paesani della “razza Piava”, si incontra oggi l’anti-retorica, la nostra Storia. —



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