La vera storia di Monte Croce Carnico, il passo del Friuli verso il Centro Europa

UDINE. Un intaglio dagli accessi ripidi, che mette in comunicazione valli facilmente percorribili. Oggi declassato, come valico minore, tra la larga sella di Camporosso e il grande collettore del Brennero, ma in passato via per compendium, ovvero diretta, tra Roma e il Norico.
È il passo di Monte Croce Carnico, cui è dedicato un volume dall’identico titolo, edito dal circolo Enfretors, che verrà presentato nella sala Cesfam di Paluzza venerdí 4 gennaio, alle 17.30.
L’autore è Diego Carpenedo, ex senatore, tra i protagonisti della ricostruzione post terremoto e cultore della storia locale, che fa luce, con dovizia di dettagli (o di teorie laddove manchino i riscontri), su un itinerario percorso dagli albori della civiltà umana, in qualche modo coeva alla formazione stessa del valico.
Monte Croce infatti è stato creato dall’erosione dei grandi ghiacciai del Quaternario, che, una volta ritirati, hanno reso pervia la cresta alpina e allentato la pressione sul fianco della montagna, originando l’instabilità e le frane che perdurano a tutt’oggi.
Manufatti in selce scheggiata rinvenuti ai laghetti di Timau, attestano una frequentazione risalente al Mesolitico, almeno 10 mila anni fa, un’epoca sulla quale si possono solo formulare ipotesi.
Certamente gli antichi Veneti percorsero il valico, non lontano dal quale, nell’alta valle della Gail, sorgeva il centro di Gurina, destinato a crescere d’importanza in epoca romana.
Ed è proprio con Roma, e con la fondazione e la crescita di Aquileia che Monte Croce acquista una valenza commerciale e strategica considerevole, molto superiore al Brennero, all’epoca privo di una strada sul fondovalle dell’Isarco, che costringeva a un’accidentata e rischiosa risalita all’altipiano di Renon.
Per la creazione, in Val But, di una carrabile con buon fondo ghiaioso o lastricato, non ci sono date certe. Carpenedo, indica, plausibilmente, il momento dell’incorporazione del Norico nell’Impero romano (15 a. C.) , necessitante appunto di un’arteria di collegamento tra l’area padana orientale e il. Centro Europa.
Epigrafi trovate sul percorso del tracciato romano attestano come questo sia cambiato nel tempo: a quello originario, sulla destra orografica, realizzato da Respectus, servus vilicus di un alto funzionario di Marc’Aurelio, (161 – 180 d. C.) , poco più di un secolo dopo sarebbe subentrata una serpentina sull’altro versante, progettata da tale Hermias che si definì artefice di un opus aeternum.
In realtà il versante era quello tettonicamente sbagliato, per la presenza di bancate calcaree verticali e persino a franapoggio che sovrastano la strada – scrive Carpenedo – e rimase poi tale nei secoli, anche dopo che la strada venne qualificata “nazionale” e migliorata (il libro riporta anastaticamente la perorazione per equipararla alla Pontebbana e alla Cividale-Caporetto, oltre che un saggio di Barbara Cinausero Hofer – Ermanno Dentesano sulla toponomastica).
Se ne occupò lo stesso Mussolini, che aveva conosciuto la zona da maestro, da giornalista e da soldato, e che, stanti gli ottimi rapporti con il cancelliere Dollfuss, voleva migliorare le comunicazioni con l’Austria.
L’ingegner Bonicelli, propose un progetto che interessava il versante non esposto alle frane e alle slavine, ma le autorità militari lo bocciarono, perché troppo «esposto alla vista da posizione di oltre confine» (malgrado la politica estera del duce era ancora fresco il ricordo della guerra). In più pretesero la creazione di camere da mina, per distruggere, ove necessario, la serie di tornanti scavati nella roccia.
Era il 1933. Al secondo dopoguerra, poi, appartiene la tormentata vicenda del traforo. Che è davvero un’altra storia. –
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