La storia di Marta Fiascaris, santa mancata nel Friuli del Seicento

Aveva scritto il Vangelo “secumdum Martam” ed era certa, dopo la morte, di resuscitare per raccontare ai vivi quanto aveva veduto. Tutto questo, diceva, grazie alla “cadrega” che in cielo le avevano già preparato tra Gesù e Maria, con accanto le seggiole destinate alle seguaci. “Dio – aggiungeva con la potenza di un tuono – mi preferisce e segue il mio consiglio. Sono sposata a Dio con molti anelli, e artigliera di Dio. ..”. A parlare provocatoriamente così, a metà Seicento, era Marta Fiascaris, una giovane di San Daniele animata da una fede visionaria, disubbidiente per amore, piena di carisma e di buona cultura pur venendo dal mondo dei sotans, ribelle e decisa a opporsi al sistema vigente invocando Dio, mentre il tribunale dell’Inquisizione le imputava di essere preda del demonio. Subì lunghi processi, minuziosi, articolati, nei quali venne difesa da un teologo domenicano, Pio Porta, visto che tra gli ordini religiosi si era aperta una accesa disputa su di lei, perseguitata soprattutto dai gesuiti. A Marta si imputarono 56 “errori”, cominciando da un tema fondamentale a quei tempi: il destino dei bambini innocenti nel Limbo. Lei sosteneva che non sarebbero rimasti dannati, ma che nel giorno del Giudizio li avrebbe battezzati Giovanni Battista. Lo sapeva perché glielo aveva detto Dio.
La storia di Marta Fiascaris è stata riscoperta grazie a varie iniziative, in particolare a San Daniele. In questi mesi è uscito un libro che la racconta pubblicando gli atti del processo, conservati nell’Archivio della Curia arcivescovile e nella Biblioteca Guarneriana. S’intitola “Sei tutta tenebre. Marta da San Daniele: una santità mancata nel Friuli del’600” (Edizioni Università di Trieste) e lo ha scritto Sandra Dolso, partendo dalla sua tesi di laurea, discussa nel 1987, per far conoscere una vicenda che narra il Friuli dell’epoca e il coraggio di una donna che, simile a Giovanna d’Arco, non volendo rispondere alla Chiesa, ma a Dio direttamente, visse al confine tra santità e stregoneria, come spiegano Giovanni Delli Zotti e Teresa Tonchia nel presentare il volume.
A stupire è poi il modo scelto per rendere pubblica la condanna (non alla pena di morte, come accadeva sbrigativamente in quei casi, ma a un decennio di carcere): decisa nell’aprile del 1652, fu comunicata in ritardo, molti mesi dopo, temendo le reazioni di chi stava con Marta. Non era sola e in prigione non si arrese. Continuò a scrivere con il proprio sangue e a spaventare, essendo una donna che non si adeguava.
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