La fortezza di Osoppo 175 anni fa fu tra le ultime ad arrendersi agli austriaci
Commemorazione sabato nell’anniversario dell’assedio dell’edificio ora monumento nazionale. La cerimonia in piazza, i colpi di cannone, poi il convegno e la premiazione di un concorso

Il Comune di Osoppo celebra il 175° anniversario dell’assedio della fortezza nel 1848 con una cerimonia sabato 11 novembre, dalle 15.45. Dopo il ritrovo in Piazza Napoleone, la deposizione di una corona d’alloro al Monumento ai Caduti in Piazza 1848 con accompagnamento della Banda di Artegna e gli sparo di colpi di cannone dalla Fortezza monumento nazionale, si terrà un convegno in sala consiliare con Luigino Bottoni, sindaco di Osoppo, Barbara Zilli, assessore alle Finanze della Regione e Andrea Zannini, professore ordinario di Storia Moderna all’Università degli Studi di Udine (che qui rievoca la vicenda storia). Seguirà la premiazione del concorso di disegni realizzati dagli alunni della classe terza della Scuola Secondaria di Primo Grado.
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Se si scorrono i libri di storia del Risorgimento e i manuali scolastici si fatica a trovare il nome di Osoppo e della sua fortezza, che fu tra le ultime ad arrendersi agli austriaci dopo la rivoluzione del Lombardo-Veneto del 1848.
É un po’ il destino di tutta la storia del Friuli, che sconta una fama di marginalità rispetto ai grandi eventi e ai grandi personaggi che animarono la storia delle città e delle capitali italiane. A patto che non si parli delle grandi tragedie, dalla Prima guerra mondiale fino alle foibe: allora il confine orientale d’Italia è sempre, ahimé, in prima linea.
Analogo, anche se opposto, luogo comune, è quello che impone o predilige la chiave di lettura dei fatti del 1848 in termini di “eroismo”.
Una prospettiva adottata dalla politica e dalla propaganda più che dalla storiografia, ma che ha continuato, ad esempio, a pervadere la narrazione scolastica del Risorgimento anche ben dentro il XX secolo, persino dopo l’avvento della Repubblica. Senza citare Bertold Brecht – «Beato un popolo che non ha bisogno di eroi» – basti ricordare in contrapposizione a tale retorica una delle letture più lucide del nostro Ottocento, quel Risorgimento senza eroi del ventenne Piero Gobetti, costretto all’esilio dalla dittatura fascista.
Appare oggi, in ogni caso, estremamente utile tenere aperto il dossier sul Risorgimento, o per meglio dire sul processo di costruzione dello Stato italiano, il nation building per usare l’espressione diffusa nel dibattito internazionale.
Non tanto perché – come vorrebbe una certa tendenza che riduce la storia alla fitologia – sia fondamentale scoprire o conoscere o celebrare le proprie “radici”, quanto piuttosto perché da quel tornante decisivo che fu la nascita del Regno d’Italia, e per come esso ebbe luogo, dipesero molte delle condizioni del nostro Paese tra Sette e Ottocento.
Non è tuttavia possibile ripercorrere qui tutte le tappe che condussero al 1848, a cominciare da quella iniziale e fondamentale dell’arrivo in Italia della grande armata rivoluzionaria francese nel 1796 che abbatté i vecchi regimi, tra i quali la millenaria, esausta Repubblica di Venezia: «Venezia non era più che una città e voleva essere un popolo» avrebbe scritto Ippolito Nievo nel più bel romanzo storico italiano dell’Ottocento, naturalmente Le confessioni di un italiano ambientate tra il Friuli e Venezia: «i popoli soli nella storia moderna vivono, combattono, e se cadono, cadono forti e onorati, perché certi di risorgere».
Teniamo in mente l’affermazione del grande romanziere, perché ci tornerà utile anche per capire i fatti di Osoppo.
Tuttavia, per non perdere il senso di ciò che sarebbe accaduto in seguito, va almeno ricordato come nei primi decenni del XIX secolo un numero considerevole di intellettuali, scrittori, artisti e uomini politici contribuirono alla formazione di un nuovo discorso nazional-patriottico, al cui centro c’era l’idea della nazione come comunità legata da fattori bio-culturali, primi fra i quali l’eredità di un passato comune, una lingua comune (che in realtà, allora era in formazione), una comune confessione religiosa.
Questi caratteri permettevano di identificare il latore della nazione, vale a dire colui che, ricevendola in eredità dagli avi fondatori, la incarnava nell’oggi, e cioè il “popolo”, quella «gente una d’arme, di lingua, d’altare/di memorie, di sangue, di cor» che il Manzoni evocava nella sua poesia sulla morte di Napoleone.
Se oggi queste parole, questi versi, suonano terribilmente enfatici è perché il nostro processo di formazione della nazione è stato sommerso tra Otto e Novecento prima dalla narrazione patriottica del nuovo Stato unitario, poi da quella bellicista che sostenne la partecipazione alla Prima guerra mondiale, e infine da quella fascista secondo la quale il Risorgimento era stato il piedestallo indispensabile per la rivoluzione fascista.
Anche le due culture prevalenti dell’Italia repubblicana, quella cattolica e quella comunista, hanno guardato al Risorgimento allo specchio della propria ideologia: la prima rammaricandosi che esso ebbe luogo, di fatto, se non contro la Chiesa almeno senza di essa, fino alla ferita della presa di Roma del 1870, la seconda, quella gramsciano-leninista rimarcandone il carattere elitario e non di movimento di “vero” popolo del processo di unificazione nazionale.
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