Il poeta e le verità scomode

Gli intellettuali friulani ricordano Pasolini. Corona: «Vedeva lontano, nessuno piú dopo di lui»

UDINE. «Era uno che non poteva tacere, che affermava verità scomode, che rispondeva solo alla sua onestà intellettuale. Come poteva non averli tutti contro, a partire dalla sinistra, che ne temeva l’inaffidabilità partitica, il carisma, l’intelligenza superiore, la capacità di visione? Lui vedeva molto dell’oggi, intuiva anche anche i migranti». Cosí Mauro Corona riflette su Pier Paolo Pasolini.

«Piú la sua figura si allontana nel tempo, piú risplende, anche perché dopo di lui mi pare non ci sia stato nessuno capace di raccogliere la sua eredità e di stargli a pari. Se non, forse, Erri De Luca, per il coraggio di opporsi a un potere che si finge democratico, e per la taccia di “cattivo maestro”».

Anche don Pierluigi Di Piazza mette l’accento sulla capacità di Pasolini di affrontare l’autorità costituita: «Le sue parole sono state una critica radicale, a tutto campo, nei confronti del potere, del palazzo come concentrazione dei diversi poteri con supporti e legittimazioni tra di loro; un atteggiamento culturale ed etico necessario anche oggi. Si è battuto con passione e lucidità contro l’omologazione, che porta spesso all’acquiescenza, alla mancanza di reazione, con un misto di impotenza, fatalismo, rassegnazione», dice il fondatore della comunità di Zugliano, ricordando anche lo straordinario “Vangelo secondo Matteo”.

«Il film piú religioso su Gesú di Nazaret, espressione di una “fede eretica”, nel messaggio diretto, profondo e provocatorio di un Gesú sempre in cammino, che sottolinea l’urgenza del cambiamento non piú rinviabile».

Di Piazza ricorda anche la genesi del film: «L’ha narrata lui stesso: nell’ottobre del 62, ad Assisi, durante la visita di Papa Giovanni XXII, si era trovato sul comodino dell’albergo il Vangelo, e aveva letto, dall’inizio alla fine, la narrazione di Matteo. “Quel duro, ma anche tenero, così ebraico e iracondo testo”, come lo definisce, sostanzia l’idea, già presente in lui, di un film sulla vita di Cristo».

Pierluigi Cappello, a volte accostato al suo conterraneo per la ripresa della figura del “donzel” («Ma il contesto è diverso, si tratta solo di un simbolo letterario al quadrato, per estrovertere il mio io», chiarisce), sottolinea la grande ricchezza di registri di Paolini, guardando però soprattutto al poeta in marilenghe.

«I suoi romanzi mi sembrano fortemente legati a un tempo e a un clima. La poesia friulana di Pasolini, parabola in cui va ricompresa anche la nuova forma de “La meglio gioventú”, rappresenta invece un assoluto letterario, qualcosa di imprescindibile. Quello che resterà, assieme alla spietata lucidità degli “Scritti corsari”, osserva.

«È stato il primo a utilizzare un linguaggio vergine, mai scritto, il friulano di Casarsa, credendo nella possibilità di fare della grande poesia, com’era avvenuto con il provenziale. E si è messo in rotta con lo zoruttismo e la Filologica, convinta che si dovesse usare solo la koiné, il friulano centrale».

Anche per Gian Mario Villalta l’incontro con Pasolini è avvenuto in ambito poetico, in un libro della biblioteca di classe. «Erano versi in italiano, quelli già tardi delle poesie amare e disperate. Il friulano, che allora non conoscevo, è stato una meravigliosa scoperta avvenuta piú tardi», racconta.

«In Pasolini una straordinaria capacità di comprensione, prima di tutto erotica, della realtà, si intrecciò con laceranti sensi di colpa, dal fratello ucciso a Porzûs alla sua condizione di gay. Anche il suo essere un intellettuale agiato e famoso, presente nel mondo della comunicazione lo metteva in contraddizione con se stesso, con il ricercare i valori di culture e consorzi sociali che andavano scomparendo».

Villalta non crede, invece, a capacità profetiche. «Ad attribuirgliene gli si farebbe un torto: ciò che scriveva derivava da una profonda penetrazione del suo presente. Allora certe cose erano chiare solo a lui. Certo, si trattava di cose gravide di conseguenze per il futuro».

«Pasolini l’ho incontrato nei momenti piú bui della mia esistenza, quelli delle “Capriole in salita”», è la testimonianza di Pino Roveredo. «Dopo aver visto “Edipo re”, che mi era parso noioso, ho deciso che era una persona agli antipodi del mondo che abitavo. Poi ho letto “Ragazzi di vita”, un libro straordinario, e la sua difesa dei poliziotti negli scontri di Valle Giulia, che mi hanno segnato».

«Ha avuto il coraggio di dire che il mondo mediatico, tv in primis sarebbe stato la rovina della nostra socializzazione, e definirlo attuale sarebbe riduttivo. Pasolini non ha scritto quarant’anni fa, ha scritto ieri, scrive oggi, scriverà domani. E di eredi non ne vedo: gli intellettuali oggi rimbalzano nelle occasioni, non sanno darci indirizzi o raccontarci la verità del nostro vivere».

Per Aldo Colonnello, Pasolini ha svolto compiutamente e coerentemente un compito: «Lanciare messaggi verso il futuro, come compete a ogni poeta. Poi il mondo li interpreterà a modo suo. E tra i messaggi che ci rimangono, forse quello piú vivo riguarda il nostro bisogno di ritrovare amicizia, solidarietà, rispetto delle diversità culturali e linguistiche», dice, ricordando due maestri: «Novella Cantarutti, mia insegnante alle medie e amica di Pasolini. Redigeva con noi un giornalino, “L’indisciplinato”, e aveva organizzato due squadre di calcio, oggetto di un tifo indiavolato. Giuseppe Marchetti, anche lui mio docente, giudicava un danno gravissimo per la Piccola Patria l’allontanamento di Pasolini dal Friuli. Il quale diceva che in Friuli gli era rimasto un solo lettore: prè Bepo».

Meno coinvolto nei ricordi Paolo Maurensig, che non si sente vicino a Pasolini («Un dato di sensibilità, di affinità, di simpatia umana, forse»), ma gli riconosce grandi meriti intellettuali: «Ha avuto una visione anticipatoria. E si è battuto per difendere i valori e impedire la decadenza di un mondo, quello friulano, che forse si è dimostrato piú resistente di quanto temesse, anche se incapace di adeguarsi ai tempi nuovi».

L’ultracentenario Boris Pahor ha invece memoria di un contatto legato alla difesa congiunta di sloveno e friulano. «Come Associazione internazionale per la difesa delle culture e delle lingue minacciate l’avevamo invitato a un convegno; lui declinò, facendo capire che, pur aderendo all’iniziativa, considerava la nostra una battaglia ormai perduta. Poi, in seguito ad altre insistenze disse di sí Ma io mi ero ammalato, e non ho potuto incontrarlo. E un mese e mezzo dopo è stato ucciso».

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