Il poeta che presagì la fine con un disco che parla a Dio

GIAN PAOLO POLESINI. Parole, parole. Arrivano sin dove arrivano, riassumendo, per quel che possono, un’esistenza imponente, fra l’altro; il senso è la musica. Va ascoltata e tanti bla bla spariranno. È morto Leonard Cohen, viva Leonard Cohen.
Lo puoi aver amato, gli puoi aver voluto solo bene o lo puoi aver semplicemente ignorato, eppure il suo è un patrimonio artistico dell’umanità, è poesia più che suono, è immaginazione. Forse il Nobel, no?, più che a Dylan... Mah, supposizioni buttate davvero nel vento. Mettete su un disco, adesso. Se non ce l’avete fate un salto su You Tube, si trova di tutto là dentro. Scegliete Suzanne, il singolo d’esordio che sta in Song of. E semmai vi sfuggisse la conoscenza del soggetto in questione, già dalle prime note direte: “ah, ma questa la conosco”. Ecco. Giova ricordare che De Andrè incise una versione italiana di questo brano. I due si assomigliavano: separati dalla nascita, si dice. Leonard in Suzanne aveva ancora una voce limpida - erano gli anni Settanta - non ancora incupita dagli eccessi.
Il cantautore ha detto basta proprio ieri. A ottantadue anni. L’annuncio è comparso sottoforma di un laconico messaggio su Facebook: «Con profonda tristezza vi informiamo che il leggendario poeta cantautore e artista Leonard Cohen è morto. Abbiamo perso uno dei più venerati e prolifici visionari del mondo della musica». Ormai si usa il social per divulgare anche le dipartite, improvvise o attese, indifferente.
Era canadese. Di Montreal, nel Québec. Non è terra solare, quella, invita all’interiorità. Fatto sta che alla fine dei Sessanta il ragazzo comincia a comporre. Song of Leonard Cohen, si diceva, sarà il primo dei quattordici album complessivi in studio. E non è un caso, ne siamo certi, che l’ultimo - You want it darker - sia uscito a un niente dall’addio e con quel titolo profetico, poi, Lo vuoi più scuro, a permeare la faccenda di un significato oscuro.
Dio e l’amore sono ben ragionati in Treaty, citando il Vangelo secondo Giovanni e anche qui bisogna pensarla bene, come se nulla fosse stato inscenato casualmente. La salute ultimamente scricchiolava e la sensibilità mette spesso sul chi va là ’sta gente d’arte in caso di pericolo, con l’anticipo necessario a evitare sorprese.
Nessuno o pochissimi della ghenga musicale d’alto lignaggio hanno attraversato esistenze prive di sfrenatezza, e non serve dire altro. Droghe, acido e anfetamine l’hanno sostenuto nello squilibrio spirituale, nei viaggi alle radici dell’ebraismo, del buddismo e delle filosofie indiane. Corroboranti necessari spesso accompagnati da presenze femminili e si compone così un puzzle diversamente regolare, almeno rispetto al tran tran dell’impiegato del catasto.
La donna sarà musa per Leonard, l’uomo che voleva (o almeno ci sperava) vivere in eterno. La Suzanne Elrod del brano d’esordio, Rebecca De Mornay e Marianne Ihlen, la madonna incontrata sull’isola greca di Hydra, che lo ispirò nelle creazioni di So long, Marianne e di Bird on wire.
La signora se ne andò in agosto e lui le scrisse: «Addio vecchia amica, addio amore infinito. Ci vediamo lungo la strada».
Le indimenticabili? Be’ Hallelujah, sound del 1984, ripreso da John Cale e dal Jeff Buckley. Dici Cohen e pensi a Hallelujah, inevitabile. Altro cardine è I’m your man, scelta da Moretti per Caro diario. E Going Home roba recente di grande impatto. E ora You want it darker. I conoscitori dicono sia l’apoteosi.
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