I 75 anni della Patrie dal Friul: l’ideale dell’autonomismo contro il pensiero dominante

La “Patrie dal Friûl” compie settantacinque anni. Un traguardo importante per un giornale scritto dalla prima all’ultima pagina rigorosamente tutto in lingua friulana.

Correva il 1946, il 24 febbraio per la precisione, quando due persone percorrevano le vie di una Udine sotto la neve, tenendo fra le mani un foglio di carta stampata appena uscito dalla tipografia Pellegrin in Borgo Gemona. La coppia in questione dà già l’idea della novità “rivoluzionaria” di quella testata che ha preso il nome di “Patrie dal Friûl”.

Uno è un prete, pre Bepo Marchet, l’altro, Felix Marchi, un medico, un dentista anarchico: il diavolo e l’acqua santa. Ideologicamente sono agli opposti, ma li unisce un amore viscerale, passionale per il Friuli, il suo popolo e il futuro di queste terre.

Pre Bepo è appena tornato dal confino politico di Bobio, in provincia di Piacenza, dove il fascismo l’aveva spedito per le lezioni di storia contemporanea che teneva a scuola, non gradite al regime, Felix invece aveva conosciuto, sin da giovane, varie prigioni per la sua militanza socialista, continuata, anzi intensificata durante il ventennio, tanto da essere classificato come “elemento pericoloso” nel Casellario Giudiziario.

La dittatura, la guerra erano finite, si respirava l’aria della libertà conquistata e pagata a caro prezzo. Le idee circolavano e fra tutte quella dell’autonomia del Friuli. Era nato il Mpf, Movimento Popolare Friulano che poteva contare sull’adesione di un vasto gruppo di professionisti, uomini di cultura e scienza, di buona parte del clero, mentre Tiziano Tessitori si muoveva in Parlamento perché quel progetto si trasformasse in realtà.

Sono, però, anche gli anni in cui si avverte una progressiva e incalzante opera di “restaurazione” centralista. Vale la pena riportare il pensiero di Lelo Cjanton, che fu direttore del giornale dal 1948 al 1953: «Pasolini definì sconsolante la storia friulana del passato, ma nella lontana primavera del 1945 il presente era addirittura agghiacciante, con un Friuli morituro nel giubilo sbandierante della Liberazione e tra gli straripanti entusiasmi ideologici dei “nuovissimi” partiti.

Infatti, proprio in quella atmosfera di resurrezione, avveniva la carnevalesca eliminazione di ciò che era riuscito a sopravvivere alla statalistica politica culturale della ventennale dittatura».

Diventa così antagonista a questo “pensiero dominante” anche la scelta del nome della testata, quanto mai significativa sia dal punto di vista storico che giornalistico. Sin dal 1887 esisteva un quotidiano come “La Patria del Friuli” che cessò le pubblicazioni nel 1931, riprenderne il titolo, ma in friulano significava negarne la valenza strumentalmente “nazionalistica” in chiave italiana per invece riportare in luce la vocazione originaria e patriarchina: fortemente identitaria.

Operazione coraggiosa, compiuta al bollente confine orientale e in tempi in cui solo la parola autonomia suscitava, nelle sedi romane, nei vertici istituzionali, incubi separatisti.

Di certo nacque come foglio politico, ma la ricerca letteraria, la autorevolezza culturale dei collaboratori, ne fece da subito un contenitore di ogni fenomeno teso a una soluzione positiva della questione friulana, come quella di una Regione autonoma perseguita dal Tessitori.

Potremmo dire che le due anime dei fondatori, si fusero nella loro creatura sino a quando non apparve chiaro che quanto auspicato non si sarebbe realizzato come nelle intenzioni e che avrebbe visto la luce “Una regione mai nata” come scrisse Gianfranco D’Aronco.

Diverse furono le strade intraprese: Marchetti, abbandonata la rivista, fondò il gruppo “Risultive” dove si raccolsero poeti e scrittori che dettero vita al rinnovamento della lingua friulana. Marchi continuò la sua battaglia in nome della libertà delle minoranze nazionali assieme alla moglie Maria del Fabro che diresse la “Patrie” sino all’ultimo numero del dicembre 1965.

Dopo alcune uscite, negli anni ’70 sotto l’egida del Movimento Friuli, si deve a un altro grande prete autonomista, pre Toni Bellina e a Glesie Furlane, al gruppo di giovani direttori che guidarono la redazione dopo la sua morte, se ancor oggi possiamo leggere un giornale al passo con i tempi, ma che mantiene le caratteristiche, le peculiarità e lo spirito voluto dai fondatori.

A me piace ricordare questo anniversario come una cartolina di auguri, come quelle di Capodanno dove appare l’immagine di un sorridente anziano con la barba bianca che passa il calendario nelle manine di un neonato anno nuovo. In fondo quel vecchio saggio assomiglia tanto all’uomo con il bastone che appare nella foto assieme a pre Bepo.

Il prete e l’anarchico: ciò che sembrava impossibile, diventa realtà per amore del Friuli. —




 

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