Guido Crainz racconta guerre e nazionalismi: l’Europa si misuri con il suo passato per potersi realizzare

Chi si sentisse sperduto dal ritorno della guerra nel cuore dell’Europa, dalla dialettica tra nazionalismi, europeismi, richiami storici e interessi economici, ha ora a disposizione una guida che aiuta ad orizzontarsi in trent’anni di deriva culturale, prima che politica, del continente: Ombre d’Europa. Nazionalismi, memorie, usi politici della storia (ed. Donzelli), di Guido Crainz.
Si tratta di un libro importante, costruito su un tessuto di fatti che si sono svolti sotto i nostri occhi negli ultimi decenni, ma riordinati sulla base di domande storiche che si possono riassumere in alcune secche proposizioni: che Europa vogliamo costruire? Come fare per superare i problemi e le difficoltà che ogni giorno sembrano aumentare? E, in questo scenario, quali sono le responsabilità e i compiti della cultura?
Lo storico udinese prende le mosse dall’euforia dell’89, dal senso di liberazione generato dalla dissoluzione della cortina di ferro, che condusse a Maastricht e alla moneta comune europea.
Che l’auto-abolizione del socialismo reale non fosse un pranzo di gala lo si capì tuttavia di lì a poco, con le guerre post-jugoslave e l’incapacità di Bruxelles di dar corpo a una politica estera comune.
Il precario equilibrio sociale dell’Europa centrale e della Russia fu inghiottito nel decennio selvaggio delle liberalizzazioni e del malaffare. Le incerte democrazie post-comuniste chiesero l’aggregazione alla UE, e nessuno ebbe cuore di negare il salvagente.
In quel momento, sottolinea Crainz, si giocò una partita importante.
L’Europa che veniva dai Patti di Roma del 1957 avrebbe dovuto capire che non si trattava semplicemente di aggregare dei numeri, passare da un’Unione a 15 a una a 25, ma di cambiare la natura stessa dell’integrazione.
Come osservò Václav Havel, bisognava dar vita a un sistema che non fosse quello creato sulle esigenze europee occidentali, altrimenti la divisione dell’Europa si sarebbe perpetuata sotto altre forme.
Pensiamo – si potrebbe aggiungere – a cosa abbia significato, dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, il mantenimento con la medesima formula della Nato, e cosa abbia provocato il suo progressivo allargamento a est: la Russia putiniana è stata incoraggiata a percepirsi come ciò che non doveva essere più, cioè l’Urss.
Da storico e intellettuale, Crainz si chiede cosa si possa fare per combattere il disincanto europeo e costruire, nella sostanza, l’integrazione europea. Individua nelle memorie civili e nel rigetto dell’uso politico della storia - non “uso pubblico”, la storia è sempre stata pubblica - due chiavi di volta.
L’Europa non può realizzarsi senza misurarsi onestamente e a fondo con il suo doloroso passato.
Contano, così, gli atti simbolici, compiuti da personalità istituzionali, come il coraggioso discorso del presidente tedesco Roman Herzog nel1994 nel ghetto di Varsavia, che riprendeva una lettera dei vescovi polacchi e chiedeva perdono «per quello che è stato fatto a voi dai tedeschi».
Ma al tempo stesso “perdonava” i Paesi dell’Europa centrale responsabili dell’espulsione dopo il 1945 di 12-13 milioni di tedeschi, una tragedia che assunse anche la forma della deportazione e provocò centinaia di migliaia di morti. Uno scenario in cui si colloca anche l’esodo degli italiani dalle coste adriatiche dopo il 1943.
Non si tratta, sottolinea Crainz, di costruire una memoria comune ma di conoscere e comprendere le memorie altrui.
Questa visione aperta della storia, disposta ad affrontare anche i nodi più scomodi e controversi, è l’esatto contrario di quanto si sta affermando di là e di qua dei confini Schengen.
In Russia, dopo una breve stagione pluralista, Putin, attraverso il controllo statale dei manuali scolastici e la messa fuori legge di associazioni come Memorial, che denuncia i crimini sovietici, ha imposto una storia centrata sulla mitografia della “grande madre Russia” e il suo destino imperiale dai Romanov a oggi.
Questa «politica della storia» è un tratto comune anche di paesi della UE, o che aspirano a entrarvi, dall’Ungheria di Orbán alla Polonia di Diritto e Giustizia, alle ex repubbliche jugoslave o alla Slovacchia.
L’indipendenza della nazione non vi è descritta come un processo storico ma come un diritto naturale del «popolo», rivendicato con tinte emotive e vittimistiche, nel più puro stile ottocentesco.
Con in più il fatto che, repressa in passato dall’internazionalismo, la storia nazionale assume i tratti di una verità lungamente nascosta e dunque indiscutibile.
Naturalmente, alla base di tutto, vi sono la Shoah, i Gulag e i totalitarismi europei.
Il problema non è fare i conti con le proprie tragedie ma con le proprie responsabilità. Così ad est si fatica a sentirsi corresponsabili della Shoah, in Polonia una legge vieta di dire che Auschwitz e gli altri campi erano polacchi, in Russia l’ignominia del patto Molotov-Ribbentropp e della spartizione della Polonia è un tabù, e via dicendo, fino all’auto-assolvimento nostrano dai crimini di guerra secondo la formula del cattivo tedesco e del buon italiano.
Non si tratta, conclude Crainz pensando soprattutto all’insegnamento scolastico ai futuri cittadini europei, di ridurre le storie d’Europa a una narrazione unica, di comprimere le diverse memorie in una sola, artificiale “memoria condivisa”.
Bensì di creare un terreno transnazionale e aperto per studiare e comprendere la storia di tutti. Un’assunzione di impegno che Ombre d’Europa compie in prima persona.
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