Gli errori al tavolo di Versailles premessa di una nuova guerra

UDINE. La guerra non finì nel novembre del 1918. E neppure nel giugno del 1919, con il Trattato di Versailles che regolò la pace con la Germania. Infatti, non solo l’Europa fu percorsa ancora per anni da conflitti, sconvolgimenti e massacri (lucidamente descritti nel 2017 da Robert Gerwarth nel libro “La rabbia dei vinti.
La guerra dopo la guerra 1917-1923”), ma a Parigi, città colma di odio antitedesco, per schiacciare la Germania si attuò una pace punitiva, “cartaginese”, premessa di una nuova guerra.
Fra quanti si accorsero subito che «si aggiravano mostri pronti a divorare ciò che restava della civiltà europea» (R. Skidelsky) spicca il nome di John Maynard Keynes.
Delegato del ministero del Tesoro britannico a Versailles fino al 7 giugno 1919, il grande economista britannico lasciò l’incarico dichiarando di avere perso la speranza che si riuscisse a produrre un documento equo e realistico: «La battaglia è perduta», disse senza mezzi termini. Ciononostante, non smise di avvertire che la distruzione economica della Germania avrebbe gettato l’Europa e il mondo in una crisi senza precedenti.
Previde allora l’inizio di un nuovo conflitto entro due o tre decenni al massimo: dieci anni dopo, nel 1929, iniziò con il crollo di Wall Street la Grande depressione. Vent’anni dopo, nel 1939, scoppiò la Seconda guerra mondiale.
In pochi mesi Keynes elaborò e pubblicò (alla fine del 1919) “Le conseguenze economiche della pace”, un testo basilare del Novecento, concepito per «dire la verità con brutale franchezza» (H. Roseveare) e destinato a diventare un autentico fenomeno editoriale, anche se gli costò l’odio degli ambienti ufficiali.
«Se puntiamo deliberatamente a impoverire l’Europa centrale – scrisse – oso prevedere che la vendetta non tarderà. Niente potrà ritardare a lungo la guerra civile finale tra le forze della reazione e le convulsioni disperate della rivoluzione, rispetto alla quale gli orrori della passata guerra tedesca saranno un nonnulla...».
Poi, nel 1922, pubblicò un altro grande libro (“La revisione del Trattato”) continuando ad auspicare una profonda modifica del Patto di Versailles, un condono generale di debiti e crediti e il lancio di un prestito internazionale per la ricostruzione. Ma rimase inascoltato.
Sebbene in netta minoranza nella sua visione drasticamente pessimista del Trattato di pace - esito di incapacità negoziali, prevaricazioni, illogicità, rancori e inattuabili aspirazioni idealistiche - Keynes non fu del tutto isolato.
Ad esempio, il nostro Francesco Saverio Nitti (ministro del Tesoro dopo Caporetto, presidente del consiglio tra il 1919 e il 1920, autore nel 1921 del libro “L’Europa senza pace”) condivise l’idea che il Trattato aveva prodotto una revisione territoriale europea molto problematica, senza predisporre una pace equa e duratura. Dal canto suo, il generale francese Ferdinand Foch, riferendosi sempre alla Conferenza parigina, parlò di una sorta di armistizio per vent’anni.
Durante la Repubblica di Weimar i vincitori ricevettero solo una minima parte delle riparazioni. Per cercare di rispettare gli obblighi, i tedeschi svilupparono una potenza industriale che avrebbe contribuito al successivo riarmo.
L’iperinflazione del 1923 e la spaventosa disoccupazione generarono un profondo malcontento, favorendo l’avvento del nazismo.
«Chiedendo l’impossibile alla fine perderanno tutto», aveva ammonito Keynes, osservando che i vincitori erano accecati dall’odio, dalla brama di bottino, dalla ricerca ipocrita di un responsabile unico (il che, sia chiaro, non sminuisce le gravi responsabilità germaniche).
Essi abbracciarono così, con toni e contenuti populistici che in qualche modo ricordano questioni odierne, il tragico destino che li avrebbe travolti assieme agli sconfitti.
Vinta la guerra, fu persa la pace.
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