Dizionario italiano-friulano: una sfida controcorrente che valorizza la biodiversità

Lo pubblica la pordenonese Biblioteca dell’immagine. Alla scoperta di parole soprattutto meno usate o abusate

La copertina del dizionario Italiano-Friulano
La copertina del dizionario Italiano-Friulano

È nelle librerie il Dizionario Italiano-Friulano Furlan-Italiano, pubblicato dalla Biblioteca dell’immagine di Pordenone. Un libro impreziosito dalle illustrazioni di di Katia Peruch, che ha realizzato anche la copertina. Pubblichiamo su concessione della casa editrice una parte dell’introduzione dello scrittore Walter Tomada, che illustra l’iniziativa.

di Walter Tomada

Che senso ha pubblicare, a terzo millennio inoltrato, un dizionario ad uso di chi ancora vuol imparare, parlare o scrivere una lingua minoritaria? In tempi di comunicazione sempre più accelerata, talvolta ridotta a pura icona, può apparire superfluo concentrarsi su una forma di linguaggio che la storia appare voler confinare nel dimenticatoio, come tutti i residui di una vecchia società contadina che si ostina a non voler morire.

Eppure, la sfida di custodire questo codice di segni e di regole antico che i friulani chiamano “marilenghe” sarà forse controcorrente rispetto allo spirito dominante, ma è tutt’altro che anacronistica. Anzi, fa parte di quella gigantesca opera di tutela e valorizzazione della biodiversità che l’umanità rimasta indenne da virus del profitto sta conducendo a ogni livello: e in questo mosaico delle peculiarità che arricchiscono il mondo di miriadi di varianti biologiche, materiali e culturali, anche il Friuli ha il suo tassello da mostrare, che è proprio la sua lingua.

Scovare in questo dizionario le parole, soprattutto quelle meno usate o abusate e quelle che si distanziano di più dall’italiano, aiuta a decodificare il mistero di una terra che è stata attraversata, invasa, calpestata, sottomessa da molteplici genti provenienti da fuori, ma non ha mai rinunciato a restare sé stessa, tenacemente, da secoli. Non sono valse le contumelie di Dante Alighieri nel “De Vulgari Eloquentia” (1304), né il disprezzo della nobiltà veneta: il friulano esiste e resiste, anche se un impetuoso fiume di emigranti ha abbandonato la sua terra per sempre e in 160 anni prima il Regno, poi il Fascio e infine la Repubblica hanno iniettato massicce dosi di impiegati, soldati, maestri tutti rigorosamente impegnati a imporre a ogni costo il dogma assoluto e indiscutibile dell’italianità di queste terre.

Nonostante ciò, i friulani sono tra i sessanta milioni di persone in Europa che parlano ancora idiomi “di minoranza”, e a 700 anni di distanza, continuano, alla faccia di Dante, a dire “Ce fastu?”. Sempre uguali a se stessi? No, certo. Ognuno dei popoli che arriva, in maniera più o meno pacifica, deposita e stratifica in questo tesoretto particolare che è la lingua i suoi termini di riferimento e conferisce in questo modo al patrimonio lessicale una eccezionale ricchezza e varietà di apporti. Apporti persino preromani, se si considera come l’innegabile sostrato latino che innerva questa lingua abbia comunque incorporato termini di derivazione celtica: come i toponimi in –icco e –acco, assai diffusi nel Friuli centrale e nella fascia morenica, ma anche parole relative all’ambiente come broili, grave, cret, troi, madrac; oggetti come savon, brucje, fagot, slepe; e vari termini legati al vestiario come braghessis, cjamese, cotule, peçot.

Se il processo è iniziato con l’incorporazione da parte di Roma, non si è certo fermato dopo la fine dell’Impero tanto che ogni popolazione passata per questa terra ha lasciato un ricordo di sé.

Abbiamo termini di origine gotica, ma soprattutto longobarda e altogermanica: solo per fare alcuni esempi, agagn, bancje, bevareç, bleon, barcon, biont, braide, brût (inteso come “nuora”, non come “brodo”), crucje, fiasc, flap, fodre, gastalt, gruse, garp, gorne, grapâ, lobie, lescule, palc, rassâ, roste, sbisiâ, sbrovâ, scagnut, sfilzade, scaie, schene, sgrimie, strucjâ, striche, spacâ, sgarfâ, tacule, trapule, vuate e tap.

Il tedesco ha regalato al friulano molti prestiti anche attraverso i termini usati dall’emigrante tipo, che tirava giù il russac o la valigia dal cjast per partire nella speranza di far fortuna, e non di essere considerato un bintar: il suo auspicio era accumulare qualche carantan per costruirsi una casa con un piccolo spolert da inaugurare con un bel licôf e obbediva perciò a ogni befèl dell’autorità

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto