Cosacchi in Friuli, i crimini contro le donne: il nuovo libro di Fabio Verardo
Il testo racconta la storia delle violenze dei collaborazionisti caucasici. Furono portati dai tedeschi in Carnia nel ’44 per combattere le bande partigiane
Flagello di Dio o puare int, povera gente? La storia dei collaborazionisti cosacchi e caucasici che i tedeschi portarono in Friuli nell’estate del 1944 per normalizzare un territorio infestato dalle bande partigiane ha generato nella memoria e nella letteratura sentimenti contrastanti, tinti di esotismo. La storiografia, invece, ha indagato nel tempo, con precisione, i caratteri di quello che fu uno degli episodi più crudi dei venti mesi di guerra di liberazione.
Fabio Verardo, in un agile e documentatissimo volume, Crimini contro le donne. Il collaborazionismo cosacco-caucasico in Friuli (1944-1945) edito da Carocci, ricostruisce un tassello della drammatica storia delle truppe provenienti dai territori sovietici, ai quali era stata promessa una “Kosakenland in Nord Italien” e che invece finirono riconsegnati all’URSS o dispersi per il mondo.
Truppe con al seguito le famiglie di etnia cosacca e caucasica furono trasferite in Friuli nell’estate del 1944 quando il movimento partigiano stava liberando territori sempre più ampi, in Carnia, nell’Alto Friuli e nel Friuli orientale. Male equipaggiati, ma adusi ad una guerra feroce che avevano combattuto ad est contro l’esercito sovietico, i “mongoli”, così spesso erano chiamati, perpetrarono una serie impressionante di violenze contro donne, ragazze, perfino bambine.
Erano atti che non avevano nulla di episodico ed istintivo, anche se venivano spesso commessi sotto i fumi dell’alcol; erano invece funzionali all’azione bellica perché incutevano terrore, sottomissione, puntavano ad umiliare la popolazione civile, privarla della dignità, ridurla in uno stato di prostrazione. Se usati come rappresaglia rispetto alle azioni dei partigiani, scavavano un solco tra questi e la popolazione, avevano cioè lo stesso scopo delle stragi, degli incendi di paesi, delle uccisioni arbitrarie.
Battendo a tappeto una mole notevole di fonti pubbliche e private, Verardo indaga il fenomeno, che sarebbe stato denunciato da Michele Gortani in Il martirio della Carnia (1966) ma che era stato subito fatto oggetto di un’indagine promossa dalla curia di Udine. Le difficoltà di indagarlo sono molte. Prima di tutto vi era la dimensione individuale del trauma, che poteva rovinare un’intera esistenza e che impediva alla vittima di parlarne. Poi vi era la cautela, anche a fini di tutelare le vittime, dei parroci e di coloro che ne trasmettevano notizia, e che spesso derubricavano la violenza a mero “tentativo”.
Infine, dietro a tutto questo, vi era una società tradizionale dove ogni riferimento al sesso o al corpo era proibito, e dunque indicibile. Così, le violenze contro l’anima e il corpo delle donne scadevano ad oltraggi all’onore personale.
Verardo ha stimato il fenomeno in un centinaio circa di stupri e violenze perpetrate dai cosacchi, ai quali sarebbero da affiancare quelle di tedeschi e fascisti, come nel caso delle donne stuprate e uccise dalla controbanda che commise la strage di malga Pramosio.
A Imponzo, don Giuseppe Treppo venne brutalmente ucciso perché si opponeva alle violenze in paese e per cercare di salvare alcune donne dai tentativi di stupro. In alcuni casi le vittime dovettero essere ricoverate presso l’ospedale di Tolmezzo dove non è escluso che, sulla scorta di disposizioni della RSI, ad alcune di esse fosse concesso di interrompere la gravidanza.
La Curia friulana, assieme alle truppe tedesche, che dai cosacco-caucasici erano fortemente temute, fu uno dei pochi punti di riferimento in grado di tutelare la popolazione. Poi, terminata la guerra, il bisogno di voltare pagina e di ricostruire un ambiente dai valori saldi contribuì a stendere il velo del silenzio sulla vicenda, che rimase per le donne un trauma tutto personale da rimuovere, o meglio da negare per rimanere all’interno di comunità compatte. Un trauma da cui non tutte, naturalmente, riuscirono ad uscire.
Sugli occupanti giunti da lontano iniziò a lavorare la letteratura e la (cattiva) storia; furono descritti come «assetati di donne. Le belle donne della Carnia», sulle quali poterono «consumare un antico diritto di selvaggia violenza» (P.A. Carnier). Meno lirica, e implicitamente assolutoria, è l’operazione condotta da Fabio Verardo in un volume che fa riflettere anche sui fatti d’oggigiorno.
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