Chivilò e gli altri martiri alpini nell’affondamento del Galilea

MATTEO LO PRESTI. Era un ragazzo vivace Giutti, non era alto di statura, ma era forte, robusto come poteva essere un contadino cresciuto tra stenti e fette di polenta condite di latte e poi qualche foglia di radicchio. Il suo nome era Luigi Chivilò, abitava al di là del casello della ferrovia oltre la piccola stazione di Provesano, sulla linea verso Gemona. Era nato il 16 ottobre 1919 predestinato a essere arruolato tra gli alpini della Julia, battaglione Gemona. C’erano solo due case in quella parte del paese. Di fronte un’uguale famiglia che viveva di stenti e di rosari recitati nella piccola stalla. Prima di partire verso luoghi ignoti, Giutti andò a bussare alla porta dei vicini e chiese a Minighina, madre di cinque figli, se poteva scrivere a Chiara, la maggiore della sua nidiata. Minighina aveva fatto la seconda elementare, apprezzava chi sapeva tenere la penna in mano. Arrivarono poche lettere. Giutti sarebbe morto nel tragico affondamento della nave Galilea silurata nel mare Adriatico il 28 marzo del 1942, poco lontano da Patrasso, insieme ad altri 991 compagni. Chiara raccontava, sempre, con dolore e tenerezza: «Non ci siamo mai baciati». Da allora sono passati 75 anni!
Il caporale Luigi Chivilò, di cui rimane testimonianza nel semplice monumento ai caduti della piazza Risorta di Provesano, doveva essere uno di quei “cinquemila morti” che l’ambizioso Mussolini voleva “buttar sul tavolo della pace” (secondo quanto racconta nei suoi diari il genero Galeazzo Ciano) per potere meglio partecipare al banchetto vittorioso che, dopo il 1940, sembrava a portata di mano delle armate tedesche.
Così non fu. Migliaia di giovani italiani furono mandati sui monti del Pireo a cercare una vittoria militare che pareggiasse i trionfi hitleriani. Nella primavera del ‘42 un convoglio di cinque navi (Aventino, Crispi, Italia, Piemonte, Viminale), imbarcati 8 mila 300 alpini della Julia che rientravano in licenza in Italia, si avviava verso il porto di Bari, con la scorta di un incrociatore ausiliario, dragamine e torpediniere.
Durante il giorno qualche aereo fece da scorta al convoglio, ma nel buio della notte del 28 marzo il sommergibile inglese Proteus, partito da Alessandria al comando del capitano Phillip Francis, alle 22.45 lanciò un siluro che colpì a prora la nave, che sbandò sulla sinistra e, come spiega il gergo marinaresco, “appruò” per una falla di sei metri per sei.
Il comandante cercò di portare la nave verso l’isola di Paxo. Invano: dopo pochi minuti la nave era bloccata e alle 3.40 del giorno dopo si inabissò. Qualche storico ha cercato di porre interrogativi inquietanti sul perché della tragedia: la nave rimasta in balia degli eventi, le altre navi timorose di altri siluri. Occorre ricordare che gli inglesi erano in possesso del radar, perfetta tecnologia, che costò alla marina italiana perdite spaventose. La nave Galilea costruita nel 1916 a Trieste dal Lloyd austriaco era una nave passeggeri chiamata Pilsa e nel 1935, passata al Lloyd Triestino, fu ribattezzata “Galilea” per i viaggi che doveva compiere sulla rotta Trieste-Palestina, insieme alla nave gemella battezzata Gerusalemme e destinata a trasportare non più di 200 passeggeri. Chiaro che nella dotazione della nave, divenuta ospedaliera, non ci potessero essere né scialuppe di salvataggio, né salvagenti sufficienti. I poveri alpini zavorrati da scarponi e zaini pesanti, molti incapaci di nuotare, sparirono nelle acque fredde. Solo 284 i sopravvissuti. Inutilmente lo stato maggiore della marina aveva chiesto a Mussolini di non entrare in guerra.
Ogni anno, come è tradizione, a Muris di Ragogna si rievoca la tragica fine dei giovani alpini, memoria dalla quale emergono notizie importanti: Giovanni Bergoglio, cugino del papa Francesco (i loro nonni erano fratelli), fu tra i pochi sopravvissuti. Bruno Galet di Sacile ha lasciato una testimonianza semplice e coraggiosa della sua vicenda, che si può leggere sul web. Era una bella nave, la Galilea, lunga 131 metri e larga 15, una struttura elegante. Il suo nome evoca desiderio di pace, rispetto per i giovani morti e disprezzo per un regime, il fascismo di Mussolini, che considerava gli esseri umani come aride cifre per la contabilità delle sue ambizioni.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto