Ceci n’est pas Omar, la ricerca di sé in scena: debutta a Udine il nuovo lavoro di Giorgio Makhloufi

Un “a solo” che attraversa identità, eredità coloniale e memoria familiare. “È una lotta del corpo contro me stesso”, racconta l’autore

Fabiana Dallavalle

 

Debutta in prima assoluta questa sera “Ceci n’est pas Omar”, Identità in movimento, dell’autore, attore e regista di origini algerine Omar Giorgio Makholoufi. In scena in una doppia replica anche domani, al teatro San Giorgio sempre alle 21, lo spettacolo è una produzione di Cssed è inserito nella Stagione di Teatro Contatto. Ideato assieme alla dramaturga Diana Dardi, (entrambi si sono diplomati alla Nico Pepe di Udine), Ceci n’est pas Omar è un atto di drammaturgia fisica, un corpo a corpo pubblico con la propria identità. Makhloufi, nato nel 1993 da madre arbëresh e padre algerino, partecipa a diversi progetti teatrali e musicali, ricevendo menzioni e premi. Diana Dardi, nata a Bologna nel 1996, è performer, laureata in Storia del teatro a Bologna e collabora come attrice con la compagnia Archiviozeta.

Se questo non è Omar allora chi è?

Makholoufi: «Mettiamo in scena un “a solo” che tratta il tema dell’identità a partire dal rapporto mancato con le mie origini algerine (mio padre). Io non sono mai stato in Algeria per motivi legati alla politica e a questioni familiari. Quando ho deciso di affrontare questo tema ho chiesto a Diana di seguirmi come dramaturga e anche come regista per elaborare un’indagine che fosse utile partendo da date specifiche che mi riguardano e da tutta una serie di sensazioni legate alla mia storia».

Come avete costruito la drammaturgia di uno spettacolo che si confronta anche con un’eredità storica e affettiva segnata dal colonialismo europeo, dalla Guerra d’Algeria, dal Decennio Nero e da un presente meticcio, inevitabilmente da attraversare?

Dardi: «Siamo partiti da un approccio maieutico, sotto forma di intervista a Omar e anche attraverso improvvisazioni guidate, anche danzate, utilizzando il corpo come driver primario. Abbiamo cercato di tirare fuori gli aspetti più reconditi che Omar prova anche nei confronti della sua storia. Il mio lavoro è stato di mettere in luce quello che andava indagato maggiormente aiutando Omar e allo stesso tempo cercando di riuscire a cogliere una coerenza che non fosse esaustiva. Volevamo aprire a un universale essendo una ricerca sull’ identità. I dati di fatto messi alla luce del sole sono leggibili e definiti. Scavando nel senso degli avvenimenti si arriva ad un lavoro che conduce ad un discorso più ampio. Nella seconda fase di scrittura ci siamo riferiti a testi sulle dinamiche della colonizzazione e decolonizzazione e sull’attenzione al corpo legata a certe politiche».

Ci sono elementi di scena che avete utilizzato nella ricerca per rendere questa storia universale?

Dardi: «C’è una drammaturgia molto forte legata alle luci. In una scena quasi desertica con sono molte ci sono una valigia, delle fotografie e abiti che di volta in volta il personaggio di Omar indossa per assumere un’identità».

Makholoufi: «Non sono mai Omar, non c’è mai una totale aderenza. La mia è una lotta del corpo contro me stesso. Nei varchi che ci sono tra una parola e l’altra si disegna un universale e la ricerca di una verità». 

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