Casarsa, 18 febbraio 1945: nasce l’Academiuta. E la poesia friulana cambia

Si celebra l’anniversario della creazione in Friuli del gruppo culturale di Pier Paolo Pasolini. L’obiettivo era nobilitare le parlate minori e fare crescere così la coscienza autonomista 

Il 18 febbraio 1945 a Versuta di Casarsa fu fondato un gruppo culturale: all’apparenza uno dei tanti.

Oggi sappiamo che quel gruppo fu diverso e speciale per molte ragioni: per il quadro di desolazione e di morte nel quale nacque; per il nome che assunse e per per lo scopo: scuola di poesia in lingua locale; per la personalità del maestro fondatore; per la personalità degli altri soci: i poeti Nico Naldini, Cesare Bortotto, Fedele Ghirat, Ovidio ed Ermes Colussi, Bruno Bruni, l’incisore Virgilio Tramontin, il pittore Rico De Rocco, e Pina Kalz, la violinista slovena che a Casarsa aveva trovato rifugio dalla guerra nel 1941.

L’immenso talento del maestro era già apparso evidente a Gianfranco Contini che, sul “Corriere del Ticino” del 24 aprile 1943, aveva recensito le “Poesie a Casarsa”: “Sembrerebbe un poeta dialettale, a prima vista, questo Pier Paolo Pasolini, per queste sue friulane “Poesie a Casarsa” (Bologna, Libreria Antiquaria Mario Landi), un librettino di neppur cinquanta pagine, compresa la non bella traduzione letterale che di quelle pagine occupa la metà inferiore.

E tuttavia, se si ha indulgenza al gusto degli estremi e alla sensibilità del limite, in questo fascicoletto si scorgerà la prima accessione della letteratura “dialettale” all’aura della poesia d’oggi, e pertanto una modificazione in profondità di quell’attributo. (. . .) ”.

Perché Pasolini fondò l’Academiuta? Lo scrisse a chiare lettere su “La Panarie” del maggio-dicembre 1949: “... io non sapevo che i friulani vivessero ancora al tempo dello Zorutti e che la Filologica che io, da Bologna, sopra il Pirona, amavo come un prodotto altamente civile, di tipo quasi centro-europeo, fosse senza filologi”.

Pasolini ha sempre amato la Filologica, ma in queste parole esprime la sua delusione per un’istituzione che aveva idealizzato e che, imponendo o privilegiando il friulano centrale, sviliva e trascurava le parlate laterali e marginali, importantissime per definire un’area culturale; alimentando, infine, il culto di Pietro Zorutti, legittimava l’uso vernacolare del friulano.

La lingua, nella visione di Pasolini, era il fattore decisivo per l’identificazione di una regione storica ( “non c’è nulla di più scientifico della glottologia”) e per far crescere la coscienza autonomistica dei friulani, quanto mai necessaria nel tempo delle lotte per l’autonomia regionale (1945-1947).

Egli, fondando l’Academiuta, non si proponeva certo di contrastare o abbattere la Filologica, della quale sarebbe diventato di lì a poco consigliere e collaboratore (San Daniele, 21 ottobre 1945): voleva, se possibile, migliorarla, e nobilitare le parlate ladine e venete della sua patria (linguistica e culturale) che, come dimostrò nella raccolta “Dov’è la mia patria” del 1949, coincideva con la parte meridionale della pianura fra fiumi Livenza e Tagliamento.

In risposta ai sostenitori della koiné, sullo “Stroligut di ca da l’aga” dell’aprile 1944 aveva scritto queste parole: “A vegnarà ben il dì che il Friùl si inecuarzarà di vei na storia, un passat, na tradision! Intant, paisans, persuadeivi di na roba: che il nustri dialet furlan a no’l à nuja di invidià a chel di Udin, di San Danél, di Sividat. . . nissun, a è vera, a lu à mai doprat par scrivi, esprimisi, cjantà; ma no è justa nencja pensà che, par chistu, al vedi sempri di sta soterat tai vustris fogolars, tai vustris cjamps, tai vustris stomis.

Chel di là da l’aga a no pol vantasi, in confront dal nustri, di essi lenga, no dialet, propit parsè che, come ch’i disevi, a no’l à dat nissun grant scritour. Dutis li fevelis furlanis, di cà e di là da l’aga, dai mons e dal plan, a spetin la stesa storia, a spetin che i Furlans a si inecuarzin veramentri di lour, e a li onorin coma ch’a son degnis: fevelà Furlan a voul disi fevelà Latin. ”

L’Academiuta assunse come stemma l’ardilut, ovvero l’umile dolcetta, e la divisa “O cristian furlanut plen di vecia salut”.

Il maestro, impegnato subito dopo la guerra dapprima con l’Associazione per l’autonomia friulana di Tessitori, poi con il Partito Comunista, lasciò un segno indelebile nella letteratura friulana e italiana, e uno straordinario ricordo nei suoi alunni della Scuola media di Valvasone.

Il frenetico entusiasmo dei suoi anni friulani lo portava spesso a esprimersi in termini profetici: Al vegnarà ben il dì che il Friul si necuarzasà di vei na storia … ad esempio, e “Tornerà a Cordovado, a Ramuscello, a Gleris / il mattino di una domenica di primavera! ”. Egli appariva, quindi, come il profeta della speranza, ma in realtà era il profeta della disperazione.

E quando nei primi anni Settanta capì che il degrado sociale e culturale prodotto dal consumismo neocapitalistico era irreversibile, con quarant’anni di anticipo profetizzò la catastrofe che stiamo vivendo: “Li pissulis fabrichis tal pì bièl / di un prat vert ta la curva / di un flun, tal còur di un veciu / bosc di roris, a si sdrumaràn / un puc par sera, murèt par murèt / lamiera par lamiera…”.

La miniera d’oro da Lui aperta il 18 febbraio 1945, quando ancora non sapeva della tragica morte di suo fratello Guido, fazzoletto verde ucciso proprio in quei giorni dai fazzoletti rossi, dopo settantacinque anni è ancora aperta a Casarsa, proprio nella casa della sua adorata madre.

 

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