Alle origini del cristianesimo di Aquileia: quella “discesa agli inferi” ancora attuale
Venerdì 3 maggio all’Università di Udine l’ultimo appuntamento del ciclo “Tradunt maiores nostri”, ospite Stefano De Feo

UDINE. Con l’appuntamento di venerdì 3 maggio, all’Università di Udine, nella Sala Gusmani, alle15.30, si chiuderà il ciclo di incontri Tradunt maiores nostri dedicato ai caratteri distintivi del cristianesimo aquileiese delle origini.
Come noto, è merito di Guglielmo Biasutti aver richiamato l’attenzione sui tre teologumeni (cioè i tre “principi di fede”) che, caratteristici del solo cristianesimo di Aquileia, già Rufino riconduceva agli esordi di quella antica Chiesa: il professare il Padre «invisibile e impassibile», il serbare la memoria religiosa del descensus del Figlio, e la risoluta certezza della «risurrezione di questa carne» erano i tre convincimenti che distinguevano ogni aquileiese, erano ciò che conferiva a chi era figlio di quella Chiesa un’identità di fronte al mondo.
L’ultimo incontro – ancora una volta accompagnato dall’esecuzione di alcuni canti della tradizione patriarchina da parte della Schola Aquileiensis – vedrà Stefano De Feo, dell’Università di Berna, presentare il tema del descensus («Discese agli inferi»): quell’“articolo” del Simbolo aquileiese custodisce fa memoria di un episodio che per la prima volta viene annunciato in uno scritto neotestamentario, 1Pt 3,19: «E in spirito ‹Cristo, dopo la sua passione,› andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione».
La prigione che qui si menziona sono gli inferi, presso i quali attendevano il Messia tutti i “figli di Abramo” (o, secondo una lettura più gnerosa, tutti i “figli di Adamo”) che erano vissuti prima di Gesù, il Cristo. Questo annuncio divenne ben presto problematico, da un punto di vista strettamente teologico, e incorse perciò in una progressiva “marginalizzazione”, venendo sostituito nel Simbolo niceno-costantinopolitano dal più generico: «Fu sepolto», che naturalmente stemperava molto il significato di quel passaggio.
Ma non è solo per ragionare dell’origine e del significato di questo paradigma dell’antica fede cristiana professata ad Aquileia che Glesie Furlane ha invitato Stefano De Feo: già, perché credere nel riscatto e nella salvezza dei figli d’Israele (o dei figli dell’umanità) delle generazioni antiche significa, in termini più “laici” e più comprensibili per il nostro tempo, affermare l’esigenza esistenziale della storia. Come il credente di Aquileia non poteva accettare un Vangelo che escludesse il passato, condannandolo a sparire negli inferi, così l’“aquileiese di oggi”, di fronte a questo mondo, non può accettare di rinunciare alla storia.
E qui si coglie immediatamente, io credo, la straordinaria attualità di questo argomento, di questo “tratto somatico aquileiese”.
Viviamo in un’epoca culturale ossessionata dall’idea di futuro ma, molto spesso, priva della volontà concreta di progettarlo; viviamo in un tempo in cui il passato ingombra – lo si vorrebbe dimenticare o, addirittura, cancellare –; viviamo in un tempo dove la rivendicazione della propria identità è, al tempo stesso, esibita (talora addirittura strillata) ma non nutrita di ragioni più vaste del proprio desiderio o del proprio sentire.
Ecco, in questo orizzonte, “salvare la storia” diventa il modo più efficace per “rimettere” il futuro “al suo posto”, come frutto di radici e scelte che hanno nel passato e nel presente il loro tempo proprio; “salvare la storia” significa mantenerla, senza idealizzarla, riconoscendone tutti i limiti, per non ripeterli, e narrandone la bellezza, per non dimenticare; “salvare la storia” significa conoscere la sorgente da cui anche la nostra esistenza è zampillata e, senza costringerci a ripetere ciò che è stato, “salvare la storia” ci permette di conoscere gli strumenti che abbiamo a disposizione per costruire l’avvenire di tutti.
Essere aquileiesi oggi rappresenta una sfida al mondo, una sfida alla sua stanchezza, una sfida alle sue sconfitte ideali. Remo Cacitti, il mio maestro, avrebbe detto: «È una sfida al mondo, quella che proponiamo».
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