Alessio Boni: «Dopo Dio vorrei interpretare un trans»

GORIZIA. A volte il teatro propone delle risposte, a volte suscita delle domande. Il visitatore è in bilico fra queste posizioni, soprattutto considerando il fatto che pone di fronte due esperti...
Di Eliana Mogorovich

GORIZIA. A volte il teatro propone delle risposte, a volte suscita delle domande. Il visitatore è in bilico fra queste posizioni, soprattutto considerando il fatto che pone di fronte due esperti delle vite altrui come il dottor Freud e un misterioso personaggio sotto i cui stracci si potrebbe nascondere Dio in persona. A dare voce, ma soprattutto corpo, ai protagonisti sono rispettivamente Alessandro Haber e Alessio Boni, diretti da Valerio Binasco e pronti a salire domani sera, sabato 5, sul palcoscenico del Verdi di Gorizia. Lasciata Tolmezzo, sulla strada per San Vito al Tagliamento, abbiamo raggiunto telefonicamente Boni per scambiare qualche battuta sullo spettacolo, in tourné da oltre un anno.

- Come si è preparato a questo ruolo?

«Tre anni fa ho iniziato a parlarne con Binasco, che ne ha curato anche traduzione e adattamento. Il testo ci interessava e era intenzione comune sfatare la figura di Freud come medico che accoglieva solo le élite. Per questo il visitatore che entra nel suo studio è concepito come un clochard, un disadattato che poco a poco si svela a Freud – e, contemporaneamente, al pubblico – per chi è veramente. I due intessono un dialogo interessante al di là della fede personale di ognuno perché il tema è l’uomo con le sue fragilità, debolezze, ma anche dubbi e necessità che Dio vuole comprendere vestendo i panni dell’uomo comune.

- Su quale aspetto punta la regia?

«Di per sé tutti gli spettacoli di Valerio sono molto fisici e questo in modo particolare. Si è buttato a capofitto nel delineare il personaggio del visitatore, un Dio che è entrato in un corpo senza saperlo gestire. Per sottolineare le sue difficoltà di movimento mi ha sottoposto a degli esercizi di improvvisazione, ho dovuto riscoprire capriole, salti: è stato come ritrovare l’innocenza del bambino, tornare a una condizione di puerilità in cui ci si sorprende di tutto, ci si meraviglia persino di un batter di ciglia. È stato un lavoro di autoanalisi che mi ha costretto a dimenticare la mia dimensione adulta per riuscire a visualizzare delle scene in cui Freud sembra un pianeta mentre il visitatore gli salta intorno e lo stuzzica figurando come il suo satellite.

- Quale reazione si attende dal pubblico?

«Lo spettacolo sembra quasi un’analisi di gruppo, non si riesce a parlare di certi temi, a porsi determinate domande a meno di non essere in terapia o di essere psicanalisti. Il pubblico ha però bisogno di parlare di sé in profondità e con serenità, senza sentirsi sotto la lente di qualcuno: e qui ci riesce perché sotto la lente ci siamo noi attori.

- Quanto pesano gli interrogativi su “chi siamo” in questo momento storico?

«Moltissimo ed è proprio dell’intelligenza di Schmitt (l’autore del testo, ndr) riuscire a contestualizzare i suoi drammi. Ne Il visitatore siamo nell’aprile del 1938, all’indomani dell’annessione tedesca dell’Austria e a quel tempo nessuno poteva immaginare cosa sarebbe accaduto. Oggi è lo stesso: si avverte che c’è qualcosa che non va, si sente che siamo in bilico nei rapporti fra Oriente e Occidente. La commedia induce a riflettere proprio su questa difficoltà nel rapporto fra gli uomini».

- Al giorno d’oggi abbiamo più bisogno di Dio o di Freud?

«Abbiamo più bisogno di uomini. Uomini che si mettano in gioco, che si confrontino e si assumano le proprie responsabilità».

- Dopo Dio , quale ruolo le resta da interpretare?

«Mi piacerebbe entrare nel mondo dei trans, un mondo avulso da tutto. Ciò che mi interessa è lasciare dei messaggi, ribaltare luoghi comuni, instillare dei dubbi».

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