Vita militare, un alto ufficiale rivela miserie e ottusità

Qualcuno ricorderà il buon soldato Svejk, le cui disavventure, scritte da Jaroslav Hasek negli anni 20, simboleggiarono il trionfo della letteratura antimilitarista negli anni tra i due conflitti mondiali. Le peripezie di Svejk tra visita di leva, cappellani militari e attendenti, viaggi verso il fronte e soste nelle bettole raccontano, attraverso gli occhi di un grasso e strampalato, ma non stupido, soldato le follie di un mondo.
Qui, in 49 sfumature in grigioverde. Fatti, misfatti e verità vissuti con le stellette dal 1969 al 2009, siamo sul versante opposto, anche se il filo dell’ironia e dello stupore è lo stesso. Un alto ufficiale racconta, ripercorrendo la propria carriera, incongruenze, cadute di stile, piccoli egoismi e grandi burocrazie del mondo militare. Ma a essere opposto è soprattutto il fine: qui a essere amato e rimpianto è il senso autentico di una vita con le stellette.
Nelle memorie del generale Villi Lenzini quello che si salva è lo spirito di sacrificio, il senso dell’onore, la disciplina e il rispetto. E quello che si brucia nel falò di un’ironia spesso amara è l’ottusità di comandi lontani, la cecità di regole astruse, la facilità con cui, in nome del rinnovamento, si buttano via consuetudini e modi d’essere. Ma, attenzione, non sono pervasi da un senso di nostalgia, o no solo da quello, i racconti del generale, a rimpiangere un mondo scomparso, come succede a noi vecchi.
No: è una lettura che, piacevole per tutti, non sarebbe inutile a comandanti e alti comandi di oggi, anche perché è colma di indicazioni, di suggerimenti, è fatta per costruire, non per distruggere. In qualche modo i racconti di Villi Lenzini sono anche una storia dell’Italia recente. Non solo dell’istituzione militare, ma del paese intero. Basti pensare al racconto del tempo trascorso in un villaggio dell’Appennino, quando in Italia si mettevano bombe sui treni e nelle stazioni ferroviarie.
Che non è solo il racconto di quel che siamo stati e di quello che hanno fatto i nostri connazionali in divisa, ma anche lo spaccato di un villaggio che sembra uscito dalla penna di Guareschi, e il ritratto, nella figura del Maresciallo dei Carabinieri nostalgico ma forte di buon senso, della mediazione all’italiana. Una storia dell’Italia e del mondo, degli anni in cui la Soglia di Gorizia era la linea del confronto con l’Altro, degli anni in cui la Somalia mandava i suoi figli più fortunati ad apprendere in Italia, o degli anni in cui noi mandavamo gli alpini ad affrontare l’emergenza umanitaria in Mozambico.
E, cosa per me più interessante, una storia del costume, dei modi di essere, di pensare. Il nonnismo, l’onnipresenza delle madri, i primi suicidi di una generazione improvvisamente più fragile. Sono tra quelli che pensano che con l’eliminazione della leva l’Italia (il tabù della intangibilità della Costituzione ha mantenuto, tra l’altro, l’articolo che la prevede) ha perso qualcosa.
Non le Forze armate, che non potevano fare altrimenti, davanti al taglio dei finanziamenti, e che hanno saputo trasformarsi, da pachiderma – sì, generale (la noia era la cosa peggiore, parola di uno del primo contingente ’75) –, in strumento agile e professionale, in grado di misurarsi in contesti internazionali. Ha perso, l’Italia, una palestra di formazione delle generazioni. Tutti, nel bene e nel male, abbiamo imparato qualcosa: dal cavarsela senza mamma e papà a rispettare e farsi rispettare, dal confrontarsi con dialetti e ranci diversi a misurarsi con disciplina e punizioni. Se io mi sento ancora con i miei amici di leva, a distanza di tanti anni, una ragione ci sarà.
La carriera del generale Lenzini si svolge a cavallo di questa gigantesca trasformazione ed è in un certo senso il racconto di una ritirata: le caserme abbandonate, le polveriere svuotate, le riduzioni dei ranghi. È un cambiamento che il soldato – perché è questo quello che il generale si sente, sotto i gradi – affronta con due armi: il buon senso e la fedeltà all’istituzione.
Non sono armi spuntate, e il coraggio del soldato è tale anche nella trincea interna: memorabili le filippiche contro il sistema delle raccomandazioni, contro gli intrallazzi nelle forniture. Coraggio anche nei giudizi, e specie in quelli con cui personalmente non concordo (dal ruolo dei soldati democratici alle missioni internazionali), ma che apprezzo per la loro franchezza. È la lingua dell’alpino, dell’uomo che ama la montagna, dove non ci sono giri di parole, e anche la storia più romantica, come il mazzo di stelle alpine portato alla futura sposa ha la sobrietà prudente di uno strappo alla regola. (...)
Tra i militari non esistono lauree ad honoris. Ma sfido chiunque, arrivato là dove l’ironia copre a fatica il disincanto – il prepensionamento passivo davanti ai servizi –, a non rimpiangere di non aver potuto ascoltare il discorso tenuto nella sbrigativa e fino a quel momento indifferente cerimonia di congedo. E sfido chiunque a non considerare il generale Villi Lenzini il miglior comandante che la brigata alpina Julia non ha avuto.
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