Venzone in lutto per Elisa, il dolore è troppo grande

Il paese sotto choc per la scomparsa di una ragazza che voleva esplorare il mondo

VENZONE. Una scolaresca in gita, con il vociare innocente dei bambini ignari di una tragedia che si è consumata a migliaia di chilometri di distanza, e un paio di turisti, in bicicletta, che si affacciano all’ingresso del palazzo della lavanda sono gli unici segni di vita in una Venzone muta, silente e distrutta dal dolore.

Elisa Valent era una figlia del Friuli, di quella terra contro la quale la storia, nei secoli, si è accanita con furia, aprendo nel tempo ferite mai rimarginate del tutto. E quasi per un sottile e perverso segno del destino, Venzone ieri mattina si è svegliata nuovamente con l’anima in subbuglio.

Nello stesso giorno in cui il piccolo municipio pedemontano cominciava a ricordare l’Orcolat di 40 anni fa e l’orgoglio della ricostruzione, binomio immutabile di tragedia e dell’innata capacità friulana di rimboccarsi le maniche e ricominciare sempre da capo, ha dovuto fare i conti con un altro sfregio dritto al cuore.

«E je une robe masse grande par nô» mormora a denti stretti il sindaco, Fabio Di Bernardo. È una cosa troppo grande, anche per lui che ha preso in mano, subito, la situazione. Lutto cittadino in tutta Venzone, cancellata ogni manifestazione programmata in settimana sul territorio comunale e, soprattutto, telefono costantemente attaccato all’orecchio. All’altro capo c’è, spesso, Anna Bedin, la mamma di Elisa.

È stata lei, domenica, a chiamare Di Bernardo, perchè il cellulare della figlia continuava a essere staccato, ma lei cercava, disperatamente, informazioni di Elisa, sapendo che era salita su uno di quei pullman che riportavano in Catalogna centinaia di studenti di tutta Europa.

Le telefonate alla Farnesina e al Consolato italiano di Barcellona hanno stretto il cerchio, sino a quando, ieri mattina, dal ministero degli Esteri hanno chiamato a Carnia, la frazione di Venzone dove vivono i Valent al primo piano di un tranquillo palazzo grigio appoggiato sulla statale, per avvisarli che tra le sette vittime italiane del tragico schianto di Tarragona c’era anche Elisa.

Una tragedia, l’ennesima di una famiglia segnata dai lutti. Sei mesi fa, infatti, se n’era andato il nonno di Elisa, a dicembre, invece, un male incurabile si era portato via zio Francesco, il fratello di papà Eligio, ferroviere in pensione dopo una vita trascorsa nelle stazioni della Carnia.

Mamma Anna e Sara, la sorellina di Elisa, sono partite nel primo pomeriggio per la Catalogna, con la morte nel cuore, papà Eligio le ha accompagnate sino allo scalo di Venezia, ma non ce l’ha fatta a salire, anche lui, su quell’aereo che lo avrebbe portato all’ospedale di Tortosa a riconoscere il corpo senza vita della sua primogenita.

È tornato a Venzone in nottata, in un paese attonito. Una comunità piccola, in cui si conoscono tutti e dove Elisa aveva seguito il cammino di mamma Anna nella banda del paese.

Anna era stata la prima majorette del gruppo e lei ne aveva raccolto l’eredità prima di salutare Venzone e trasferirsi a Padova per la laurea specialistica. Da qui, un mese fa, era volata in Catalogna, e a Barcellona, con in tasca lo stesso sogno di libertà e spensieratezza di migliaia di ragazzi della sua età, ci sarebbe dovuta rimanere sino a giugno.

Ma un autobus impazzito se l’è portata via, a nemmeno 25 anni, nella prima notte di primavera. Lì, qualche chilometro più a sud del punto dove, nel 1938, Francisco Franco si prese la Spagna, superando la linea del fiume Ebro, un autista in preda a un colpo di sonno, ha perso il controllo del mezzo portandosi via la vita di Elisa e di altri dodici ragazzi.

Venzone piange, lacrime amare, come quelle di Manuela dell’ufficio anagrafe che non riesce a fermare i singhiozzi. Elisa era di casa, da lei, una delle migliori amiche della figlia e Manuela è incredula. Come incredulo è il paese.

Don Roberto Bertossi è il parrocco di Venzone da 33 anni. Un prete di montagna, di poche parole, ma che ha visto nascere e crescere Elisa. Ti parla dalla finestra della sua canonica, non apre la porta. Le uniche frasi che gli strappi su Elisa sono quelle che la descrivono come una ragazza «intelligente, molto sensibile e con la voglia di esplorare il mondo».

Non pecca in educazione, don Roberto, è semplicemente molto riservato come lo sono tanti, da queste parti. Friulani abituati ad affrontare e metabolizzare i lutti, senza strilli, con un dolore che si consuma all’interno. Perché qui i drammi non sono istantanee da sbattere in piazza, da mostrare al mondo in cerca di pietà.

Si affrontano insieme, come soltanto una comunità compatta e attaccata alla propria terra è ancora in grado di fare. Lo capisci muovendoti tra i bar del paese. La tragedia, o meglio le tragedie in serie, della famiglia Valent lasciano basiti, e cospargono, ancora una volta, di cupo l’atmosfera di Venzone.

Venzone che non capisce perché di nuovo trova il suo posto sulla cartina geografica per un dramma, a 40 anni di distanza dalla più grande prova che il destino le ha imposto di superare.

«Io non faccio programmi a lunga scadenza, tanto qui un giorno ci sei e l’altro no» mormora un barista. «Qualche volta mi chiedo se non sarebbe stato meglio morire nel ’76, piuttosto che vivere in questo mondo balordo», sospira un’altra signora.

Uno sconforto che dura, però, un breve lasso di tempo. Fino a quando un anziano li guarda e sentenzia: «No, cumò o vin di stâ dongje ai Valent». Dobbiamo stare vicini ai Valent. Alla maniera friulana. In silenzio. D’altronde quassù si sa, non ci sono alternative.

«Ce vino di fâ – chiosa un signore, appoggiato su un bastone a sorreggerlo e con lo sguardo di chi ne ha viste tante –? Tignin dûr, come simpri». Teniamo duro, come sempre.

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