Terremoto del Friuli, l'imbroglio delle accise: i costi post-sisma pagati 15 volte

Studio della Cgia di Mestre sugli incassi relativi alle accise. Per il Fvg spesi 5 miliardi, ma il gettito fiscale è stato di 78

UDINE. «Il Friûl al ringrazie e nol dismentee» è stato negli ultimi 40 anni un vero e proprio mantra ripetuto dai cittadini della regione in ogni ricorrenza che ricordava all’Italia e al mondo la capacità di questo limbo di terra incastonato a Nordest di rialzare la testa dopo il terremoto del 1976.

Promessa mantenuta: il ponte dei friulani fa risorgere Amatrice

Una frase a ragione ricordata in tutte le occasioni perché se la tenacia e la caparbietà della nostra gente di ricostruire tutto «come prima e dov’era prima» ha fatto sì che il “modello Friuli” venga riproposto ancora oggi come l’unica strategia valida in Italia per far rinascere una terra devastata da un terremoto – ovunque si trovi –, è altrettanto vero che senza l’aiuto del Governo centrale e delle migliaia di miliardi (in lire) dirottati in Fvg, sarebbe stato ben difficile vedere Gemona e Venzone, per citare gli esempi più eclatanti, risorgere come una fenice dalle loro ceneri.

Lo Stato ha fatto la sua parte – abbondantemente –, ma alla fine dei conti, 40 anni dopo, ci ha guadagnato o rimesso? Il saldo è attivo. E pure di parecchio secondo il Centro Studi della Cgia di Mestre: è pari a più di quindici volte di quanto speso per la ricostruzione del Friuli. Uno dei metodi classici utilizzati dai Governi – della Prima e della Seconda Repubblica – per finanziare le opere, infatti, è stato quello di introdurre nuove accise sui carburanti.

Dal sisma del Belice, datato 1968, a quello dell’Emilia Romagna, di quattro anni fa, in ben cinque occasioni su sette – sono esclusi solo i terremoti di Marche e Umbria (1997) e Puglia e Molise (2002) – palazzo Chigi ha deciso di alzare l’imposizione fiscale sui carburanti per trovare il denaro necessario a coprire i costi delle ricostruzioni.

Aumenti della tassazione che dovevano essere temporanei – esattamente come le “gabelle” introdotte per la guerra di Abissinia (1935), la crisi di Suez (1956), il disastro del Vajont (1963) e perfino il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri (2004) –, ma che invece continuiamo a pagare, tutti noi, ogni volta che andiamo dal benzinaio a fare il pieno. Sì, perché il Governo presieduto da Mario Monti, nel 2013, ha reso permanenti le accise introdotte per reperire le risorse necessarie alla ricostruzione delle zone devastate dai terremoti.

Entrando nel dettaglio dei dati ufficiali raccolti dalla Cgia, quindi, ci si accorge che per finanziare la rinascita del Friuli l’allora esecutivo di Aldo Moro introdusse l’accisa più alta tra quelle finora conosciuta per quanto riguarda un post-sisma.

Nel 1976, infatti, il Governo decise un aumento di 99 lire al litro che sino alla scorso anno ha garantito all’erario un gettito fiscale pari a 78,1 miliardi di euro a fronte di un costo complessivo per la ricostruzione friulana – e in questo caso il calcolo è stato effettuato dal Centro Studi del Consiglio nazionale degli ingegneri – di 4,78 miliardi, cioè oltre 15 volte in meno rispetto ai fondi messi in campo dallo Stato.

Attualizzando gli importi – cioè rivalutando i costi sostenuti all’epoca in base ad appositi coefficienti forniti dall’Istat –, invece, si evince che la spesa per la ricostruzione è stata di 18,5 miliardi di euro, mentre il gettito fiscale complessivo e recuperato supera i 146 miliardi.

Una pioggia di denaro e poco cambia se analizziamo gli altri terremoti per i quali si è intervenuti sulle accise. Prima del Friuli, infatti, lo Stato ha dovuto fare i conti con il sisma del Belice nel 1968. Alla guida del Governo c’era sempre Aldo Moro che, in quel momento, decise di introdurre un’accisa sui carburanti pari a 10 lire.

Dal 1970 fino al 2015 l’erario ha incassato 8,6 miliardi di euro nominali – cioè l’ammontare pagato in quel periodo senza valutare l’effettivo valore odierno – mentre la ricostruzione ne è costata 2,2. In valori attualizzati al 2016, quindi, il costo è stimabile in 9,1 miliardi di euro e la copertura ricavata dal gettito fiscale di 24,6 miliardi.

Andiamo oltre e passiamo all’Irpinia, quattro anni dopo il Friuli. Palazzo Chigi, nel 1980, aveva come proprio inquilino Arnaldo Forlani che autorizzò un’accisa da 75 lire al litro per la ricostruzione. Risultato? La riedificazione di immobili e infrastrutture è costata 23,5 miliardi di euro (52 se traslati sul 2016) a fronte di un incasso complessivo di 86,4 miliardi.

Molto meno impattante, ma comunque significativa, è invece la situazione relativa ai terremoti dell’Abruzzo e dell’Emilia Romagna. Partiamo dal 2009 quando, per L’Aquila e le altre zone colpite, il Governo di Silvio Berlusconi diede il via libera a un ritocco minimo di 4 millesimi di euro al litro per benzina e gasolio.

A fronte di una spesa ipotizzata – visto che la ricostruzione è ancora in corso – di 13,7 miliardi di euro nominali (identica a quelli attualizzati), lo Stato finora ha incassato 539 milioni (540 attualizzati). Per quanto riguarda l’Emilia Romagna, infine, l’esecutivo guidato da Monti decise di aumentare le accise sui carburanti di 2 centesimi per cui stando a un insieme di uscite che dovrebbe aggirarsi attorno ai 13,3 miliardi, il gettito riscosso fino adesso è stato di quasi 2,7 miliardi.

«Ogni volta che facciamo il pieno – sottolinea il coordinatore dell’Ufficio Studi Paolo Zabeo – 11 centesimi di euro al litro ci vengono prelevati per finanziare la ricostruzione delle zone che sono state devastate negli ultimi decenni da questi eventi sismici. Con questa destinazione d’uso gli italiani continuano a versare all’erario circa 4 miliardi di euro all’anno».

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