Sessant'anni fa la morte di Coppi, «Ettore, dammi aria»: poi la malaria si prese il Campionissimo

«Ettore, dammi aria». È quasi l’alba del 2 gennaio 1960. L’Italia, che Fausto Coppi assieme a Bartali, Magni, e gli eroi del pedale aveva contributo a far rinascere dalla guerra, è in pieno boom economico.
Di più, il 1960 è l’anno delle Olimpiadi di Roma che mandano al mondo un messaggio inequivocabile: il Belpaese, uscito dilaniato dalla guerra, è rinato.
Il 2 gennaio, in un letto del piccolo ospedale di Tortona, sta morendo il più forte atleta italiano di ogni tempo, Fausto Coppi. Ha 40 anni, ha dominato il mondo su una bici, ha vinto due Tour de France, cinque Giri d’Italia, cinque Giri di Lombardia, tre Milano-Sanremo, quella del 1946 con un quarto d’ora di vantaggio, un Mondiale.
Ha dominato in pista. Ha diviso l’Italia lasciando la moglie per la Dama Bianca, donna sposata e con due figli, cosa inimmaginabile per il Paese cattolicissimo (almeno a parole).
Il suo fisico è un prodigio della natura: il cuore a riposo batte meno di 40 volte al minuto, dentro quel torace incavato sbuffano due polmoni capaci di trasformare l’aria in minuti di vantaggio sui rivali nelle sue proverbiali fughe.
Da almeno quattro anni, in sella il campione è l’ombra di se stesso, corre ancora per passione, soprattutto per soldi, fors’anche per sfuggire alla nuova vita con la Dama Bianca, donna che gli ha dato il piccolo Faustino, ma dalla quale ormai si sente soffocato.
I polmoni di Coppi, il suo fisico sono alla fine. Incredibilmente distrutti dalla malaria contratta venti giorni prima di quel maledetto 2 gennaio durante una battuta di caccia in Africa.
«Sarebbero bastate due pasticche di chinino per placare il morbo». Quante volte abbiamo sentito o letto questa frase nelle centinaia di libri, documentari, speciali sulla morte del Campionissimo? Tante.
Eppure dietro alla scomparsa improvvisa, che scioccò l’Italia, c’è molto di più. Non fu solo fatalità. Tra Villa Coppi, la dimora del campione a Novi Ligure e il piccolo ospedale di Tortona, si consumò in pochi giorni una tragedia specchio di un Paese arretrato, supponente e ipocrita.
Così era l’Italia 60 anni fa, in pieno boom economico, a 15 anni dalla fine della guerra. Siamo onesti, quanto migliore è il Paese ai nostri giorni? Due gennaio 1960.
«Ettore, dammi aria» ossigeno, vita, dice al gregario Fausto Coppi con un filo di voce che a tratti diventa rantolo sul letto di morte. Ettore Milano è suo fidato gregario. Compagno di mille battaglie.
È quello che alla partenza della tappa dello Stelvio al Giro 1953 con uno stratagemma fa togliere gli occhiali da sole a Ugo Koblet, vede le occhiaie della maglia rosa e invita il capitano a tentare l’attacco sulla montagna mai violata dalla corsa rosa.
È quello che mai aveva abbandonato Coppi, anche quando, nelle ultime stagioni, il campione arrancava in gruppo prigioniero del suo mito. In “Coppi, l’ultimo mistero” (Ediciclo, 15 euro) Paolo Viberti, giornalista con 40 Giri d’Italia alle spalle, valanghe di Olimpiadi e un grande amore per il ciclismo, racconta, giorno per giorno, quasi minuto per minuto, la fine del Campionissimo.
Lo fa assieme a un amico di Coppi, Adriano Laiolo, che con il grande ciclista condivideva la passione per la caccia. Dal racconto emergono il dramma e la rabbia, che viaggiano di pari passo.
Sono almeno tre i medici, da quello di fiducia al primario dell’ospedale di Tortona fino a uno specialista arrivato da Genova, a lasciare incredibilmente intentata la pista della malaria. Un semplice esame del sangue avrebbe, infatti, permesso di individuare la causa del male.
Un esame che è stato fatto troppo tardi, il 1° gennaio, quando ormai il Plasmodium Falciparum ha distrutto i globuli del sangue del Campionissimo rendendo vano ogni tipo di intervento.
Ironia della sorte, poche settimane dopo, i vetrini col sangue di Coppi infetto verranno mostrati agli studenti di Medicina a Genova come esempio lampante della malaria.
Perché accadde tutto questo? Coppi, che era stato curato dagli inglesi con il chinino durante la prigionia in Africa, come racconta Laiolo, nel corso della battuta di caccia in Alto Volta aveva rifiutato diverse volte le pasticche preventive di chinino.
Ne ricordava gli effetti collaterali spiacevoli. Coppi, particolare fondamentale, al ritorno in Italia non fu aggredito da febbre altissima, come accadde allo stesso Laiolo e in Francia al gregario e compagno di viaggio Raphael Geminiani.
Forse per il suo fisico hors category la febbre in un primo momento non salì mai oltre i 38, inducendo i medici all’errore. Fu curato con iniezioni di canfora dal giorno di Natale, mentre a pochi chilometri di distanza l’amico cacciatore, a letto con 40 di febbre, fu curato con provvidenziali (e inconsapevoli) iniezioni di clorochinino.
E Geminiani? È vero che i parenti del corridore francese, in coma ma cui in extremis era stata diagnosticata la malaria, chiamarono Villa Coppi per avvertire del pericolo? No. Quando lo fecero il Campionissimo era già morto.
Il 27 dicembre, mentre il morbo inesorabilmente lo sta consumando, Coppi va a caccia nella sua tenuta. Comincia a stare male, passa la notte di Capodanno in villa. Ci sono la Dama Bianca, il piccolo Faustino e mamma Angiolina.
È allettato, respira a fatica. La febbre ora è altissima, i battiti volano a oltre 120 al minuto. Nella prima notte dell’anno peggiora. Non riconosce il fratello maggiore Livio, chiamato da Castellania.
La situazione precipita, si opta per il ricovero nel vicino ospedale di Tortona. A Pavia, struttura più attrezzata, potrebbe non arrivare vivo. Prima di salire sull’ambulanza fa in tempo a dire al piccolo Faustino, che da quel giorno vivrà nel ricordo del papà, “Papo, non far arrabbiare la mamma”.
Quando entra in ospedale, la sorte del Campionissimo è segnata. La notizia si diffonde, i giornali escono con edizioni straordinarie. Viene chiamata la prima moglie, Bruna. Entra nella camera quando la Dama Bianca è stata appena fatta uscire da una porta secondaria. Una scena da film.
Scrive il grande Gianpaolo Ormezzano, catapultato da giovane cronista al capezzale del mito. «Fu un balletto squallido di entrate e uscite dall’ospedale, di incontri imbarazzanti evitati con una giravolta».
Coppi riconosce la moglie, si porta le mani al volto. Per chiedere perdono, per vergogna? Chissà. E l’ultima notte. «Ettore, dammi aria», dice al gregario di sempre. Milano dichiarerà alla radio: «Fausto si rendeva conto benissimo di essere alla fine: mi guardava senza parlare, come un leone in gabbia».
Il gregario gli dà ossigeno. L’ultima borraccia. «Ebbe tre rantoli spaventosi: dopo il terzo le lenzuola si abbassarono di colpo, come se quella meravigliosa macchina d’ossigeno si fosse staccata per sempre».
Poi la processione in ospedale, la “battaglia” dei manifesti funebri tra le due sue donne, le edizioni speciali dei quotidiani, Tuttosport ne fece sette in un giorno sull’agonia, quasi 80 mila copie dell’edizione straordinaria della Gazzetta dello sport con l’annuncio della morte furono vendute in due ore, le migliaia di persone al funerale a Castellania. Bartali che piange accanto a mamma Angiolina. Addio mito.
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