Se n'è andato Iroso, l'ultimo mulo che ha fatto la naja: merita una lapide

UDINE. Ahi, anche Iroso è andato avanti. Ricevo ogni tanto email dai miei colleghi di corso, di reparto, di naja, e ogni email ha in coda la luttuosa notizia che informa: “Il Tale è andato avanti”. Andare avanti significa precedere gli altri, arrivare prima, raggiungere lo scopo, la vetta. Solo gli stupidi lo intendono come “morire”.
Tra compagni di naja, di reparto, di corso, non si muore mai. Chi va avanti, aspetta gli altri. Chi è indietro, sa che è atteso. Dunque Iroso è andato avanti. Iroso è un simbolo, il simbolo di tutti i muli, perché era il più vecchio, e dunque li rappresentava.
Era amato per questo. Era vezzeggiato, carezzato, ben nutrito, ben curato. Esibito. Vedo le foto del governatore del Veneto che carezza Iroso. Non carezza solo Iroso, un mulo, ma i muli, e con essi gli alpini che – chiedo di essere ben capito – erano i muli umani delle montagne.
Infaticabili, docili, obbedienti, grati. Una volta facemmo una manovra ai confini con l’Austria, una di quelle manovre che fingono di essere operazioni reali, e dunque prevedono punizioni severe per chi sbaglia. Marciammo per 12 ore, mangiando al sacco.
Alla sera piantiamo le tende. Via radio arriva la notizia che non avremmo mangiato, perché i muli avevano sbagliato sentiero ed erano finiti in mano al nemico. A guidare i muli doveva essere uno più stupido dei muli, i muli da soli non sbagliano strada.
Cinque minuti d’imprecazioni. Poi gli alpini si disperdono per i monti, girando in cerca di mucche da mungere, e tornando con la gavetta piena di latte. Io m’ero già sdraiato per dormire, quando un alpino entra nella mia tenda e mi offre la sua gavetta piena di latte tiepido.
Gli alpini eran fratelli tra loro. Erano coraggiosi, anche più degli ufficiali. In vetta arrivavano sempre per primi. Se c’era un passaggio difficile, loro, quelli della squadra rocciatori, si legavano alla montagna per afferrare al volo e deporre dall’altra parte quelli che arrivavano.
Noi eravamo del Settimo, le nostre montagne erano il Pelmo, il Civetta, l’Antelao, le Tre Cime di Lavaredo. Il Latemar, che era (ma questo era un segreto militare) la nostra “linea di estrema difesa”. In vetta al Pelmo si sale per una cengia esposta, che per un piccolo tratto era crollata (adesso il crollo è molto più lungo, e ci hanno messo un tratto di ferrata), c’era un salto da fare, un salto di due metri, una sciocchezza, se non fosse che sotto c’era uno strapiombo di duecento metri.
Dall’altra parte del salto ponemmo un alpino rocciatore, assicurato alla montagna con corde e moschettoni, chi arrivava gli saltava in braccio, lui lo afferrava e lo metteva giù. Come sono arrivato io, l’ho guardato negli occhi, lui ha sorriso, mi son buttato e come vedete sono ancora vivo. Vedo ancora il suo sorriso. Se lo incontro, lo riconosco. Anche nel mondo di là. Strano, in una brigata veneta, era un piemontese.
Un alpino inchiodato sulla cengia serve se devi saltare uno strapiombo, ma se devi percorrere un sentiero a picco sul vuoto, servono i muli. I muli non soffrono vertigini. A ogni mulo s’attacca alla coda un alpino, il mulo va dritto, e l’alpino dietro, a occhi chiusi.
Non vinci le montagne se non hai i muli. Iroso era un condottiero degli alpini veneti. È andato avanti. Ci aspetta. Prima o poi arriveremo. Con i muli sei sicuro, con Iroso di più. I muli erano i migliori alpini del Reggimento, e Iroso era il migliore tra i migliori. Merita una tomba. E una lapide. —
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