Se il Friuli diventa “lavatrice” del denaro

UDINE. Il tempo delle mele è finito. Ora anche il Friuli Venezia Giulia ha la maturità per riconoscere e affrontare un fenomeno criminale dal quale, chissà mai perché, riteneva d’essere immune. Bella scoperta, si affretteranno a dire in molti: che una parte delle pizzerie napoletane fungesse da “lavatrice” per gli affari della mala campana lo si sapeva da decenni. Almeno dall’inizio degli anni Ottanta. Bene.
Ma allora perché nessuno è mai intervenuto prima? Perché la macchina del riciclaggio ha continuato a lavorare indisturbata nei locali sparsi tra il lungomare lignanese, le piazze di Trieste e Udine e, su su, finanche nelle zone più remote del Tarvisiano?
Forse semplicemente perché non si è voluto e neppure saputo scavare a dovere. Perché il problema è stato sottovalutato e infine accantonato, superato da contingenze di ordine pubblico ritenute più urgenti. Adesso, però, i nodi stanno venendo al pettine. Uno dopo l’altro.
Un mese fa, erano state le confessioni di un pentito calabrese a rivelare la presenza di una ’ndrina nel Monfalconese e dei traffici di droga e armi gestiti nella nostra “immacolata” regione, con l’appoggio dei “cumpari” trapiantati a Rho.
Prima, e per l’esattezza dal 2010 almeno, un’inchiesta della Dda di Palermo aveva indicato nell’hinterland udinese il quartier generale di una famiglia di imprenditori mafiosi che, attraverso operazioni apparentemente lecite nel campo della costruzione e della compravendita immobiliare, ripuliva i denari ricavati da ben altre attività, in primis estorsive, realizzate in Sicilia.
Per non dire degli appalti milionari – basti pensare all’ammodernamento della base Usaf di Aviano, nel 2000 – aggiudicati ad affiliati degli Emmanuello nel Pordenonese.
Ora, a togliere il paraocchi alla Cenerentola friulana è di nuovo un collaboratore di giustizia. Un camorrista, come i tanti che, negli anni Novanta, controllavano lo spaccio di sostanze stupefacenti nella città dei cantieri navali e che un’indagine della Dda di Trieste stroncò nel 2002 con decine di arresti tramutati poi in condanne
. Le sue parole rievocano storie passate, forse anche troppo per sperare di trovare ancora adeguate conferme probatorie. Ma senz’altro utilissime per aggiungere un ulteriore capitolo al romanzo criminale del Friuli Venezia Giulia. Gli investigatori che ieri hanno dato corso a decine di perquisizioni parlano di «illecita movimentazione di ingenti flussi finanziari» e alla memoria, mia e sicuramente di coloro che all’epoca vi lavorarono, torna l’operazione “Black money”.
Era il 2003 e da una serie di verifiche fiscali la Guardia di finanza di Udine riuscì a riconoscere un filo diretto tra il sistema creditizio del capoluogo friulano e i villaggi turistici di Vibo Valentia.
Fiumi di denaro proveniente dalla raccolta del “pizzo” e immesso sui binari della legalità nordestina, su conti intestati per lo più a prestanome – ne furono individuati 194, per una dozzina di correntisti appena, a fronte di dichiarazioni dei redditi decisamente mediocri – e adoperato per l’acquisto di bar, gelaterie e altre attività co. mmerciali a Udine e provincia. Passata per competenza territoriale alla Procura di Catanzaro, l’inchiesta è culminata nel 2014 nel maxi-processo che ha scardinato la cosca Mancuso di Limbadi.
Anche questa volta esiste un pregresso. I ricordi del camorrista pentito hanno offerto agli investigatori l’assist per aprire gli archivi e riattualizzare informative che, dopo anni di permanenza su binari morti, si rivelano all’improvviso incredibilmente utili non soltanto a interpretare le opacità del passato, ma anche a incanalare l’attività investigativa, ora e sempre, sulla pista degli investimenti.
“Follow the money”, insegnava Falcone, e tutti ormai abbiamo imparato la lezione. Nella nostra regione, il passo successivo consiste nel convincersi dell’idea che i soldi sporchi erano, sono e continueranno a essere ripuliti anche qui, nelle nostre banche, nelle imprese sull’orlo del fallimento e nelle transazioni finanziarie mediate da professionisti (i “colletti bianchi”) al soldo della criminalità organizzata.
A dimostrarlo sono i risultati che l’attività della Direzione investigativa antimafia e della Direzione distrettuale antimafia di Trieste stanno producendo e sono anche le interviste, i servizi giornalistici e le pubblicazioni editoriali che il nostro territorio da tempo propone.
Contrastare le infiltrazioni mafiose nelle economie sane, oggi, significa soprattutto individuare e isolare i cosiddetti uomini “cerniera”. Per farlo, servono investigatori e magistrati preparati, certo, ma serve nondimeno la collaborazione di tutti: di cittadini consapevoli, di imprenditori onesti, di una stampa libera e di una classe politica trasparente e incorruttibile.
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