Quando a Udine arrivò la N'ndrangheta: condannati Piromalli e suoi prestanome

UDINE. Quando i carabinieri del Ros varcarono la soglia del centro commerciale Bennet di Pradamano, il 26 gennaio 2017, e in Friuli si sparse la notizia che a mandarli era stata la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, nell’ambito di un’operazione volta a stroncare le attività delittuose del clan Piromalli di Gioia Tauro, la sorpresa fu (al solito) grande. Si scoprì che gli interessi della ’ndrangheta si erano spinti fino alle regioni di Nord-Est e che il business era maturato tra ricchi bancali di frutta e insospettabili negozi di abbigliamento.
Ora, l’impianto accusatorio che, quel giorno, portò al fermo di 33 indagati e al sequestro di beni per un valore di circa 40 milioni di euro, ha trovato conferma nella sentenza con cui il gup calabrese ha inflitto condanne per un totale di 150 anni a undici dei diciannove imputati che avevano scelto il rito abbreviato.
I nuovi business
Il piano era quello di garantirsi l’ingresso in settori commerciali - dal mercato ortofrutticolo di Milano alla grande distribuzione nordestina e statunitense - che avrebbero potuto assicurare buoni margini di guadagno, camuffando nel contempo il riciclaggio di ingenti capitali di provenienza illecita. Da qui, l’esigenza di agire nell’invisibilità, affidando a fidati prestanome la titolarità di operazioni decise e gestite sempre e comunque dai vertici. Senza dare nell’occhio, quindi, per non destare sospetti anche fuori dal quartier generale della piana di Gioia Tauro.
L’inchiesta “Provvidenza” ha mandato all’aria tutto, vanificando i tentativi del clan e dei suoi accoliti di muoversi indisturbati in aree ritenute - ormai sempre più a torto - meno aduse al contrasto della criminalità organizzata e, quindi, più sicure rispetto alle terre d’origine.
Lo schermo e i negozi
Al Bennet di via Nazionale, il riciclaggio era avvenuto nei punti vendita collegati ai marchi francesi “Jennifer” e “Celio”, inaugurati rispettivamente il 15 settembre 2015 e l’8 gennaio 2016.
L’attività d’indagine ha permesso di riconoscere dietro alle società che avevano aperto entrambi i negozi, la “Original trade srl” di Vigonza e l’“Artemide” di Milano, la regia di Antonio Piromalli, ossia nientedimeno che il reggente della cosca e figlio 46enne del super boss Giuseppe detto “Facciazza”, e del suo braccio destro e concittadino Alessandro Pronesti, 40 anni. Sulla carta, però, il nome registrato era quello di Cinzia Ferro, milanese di 43 anni, compagna di Pronesti. Lei la testa di legno adoperata come schermo, loro i proprietari di fatto.
Nel contestare ai due ’ndranghetisti l’associazione a delinquere di stampo mafioso, la truffa e l’intestazione fittizia di beni, la Procura li aveva accusati di avere «investito capitali illeciti accumulati nel contesto dell’attività della cosca negli anni precedenti all’arresto di Piromalli, il 23 luglio 2008, nella Original Trade, per una quota pari a un terzo del capitale di 100 mila euro versato, e nella Artemide di Ferro Cinzia, fittiziamente a lei intestate». Il giudice ha condannato Piromalli - all’epoca rinchiuso nel carcere di Tolmezzo e interrogato per rogatoria dal gip di Udine - a 20 anni di reclusione, Pronesti a 12 anni e Ferro, chiamata a rispondere della sola intestazione fittizia, a 2 anni.
Clementine e olio
Nel risalire la Penisola inseguendo le ambizioni imprenditoriali di Piromalli e dei suoi soci in affari, gli investigatori si erano imbattuti per prima cosa nella filiera agroalimentare che, dalla Calabria, aveva visto partire carichi di clementine destinati al mercato di Milano, dove il boss «per scelta criminale si era stabilito strategicamente» e da dove «continuava a mantenere il controllo assoluto su Gioia Tauro».
Poi, proseguendo lungo la direttrice nordestina, l’attività investigativa aveva individuato un’ulteriore fonte di reddito in Veneto, dove - oltre alla distribuzione degli agrumi nelle catene Ali e Bennet -, il clan era riuscito a ottenere il controllo dell’attività di narcotraffico nell’Interporto di Padova, a Vigonza, e su altre zone delle province di Venezia, in particolare in Riviera del Brenta, Treviso, Belluno e Vicenza, e in Friuli, con il commercio nel mondo della moda.
E poi c’era la proiezione all’estero, con l’inserimento degli agrumi nei mercati rumeni di Timisoara e Oarja, e, oltreoceano, con la vendita di olio di sansa spacciato per extra vergine di oliva made in Italy negli Stati Uniti.
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