Pittini: "Vi dico come si riparte, ma Trieste costa troppo. Renzi? Bravo, però...»

«Quando ripenso al terremoto mi viene in mente sempre un mio operaio. Il 6 maggio aveva perso il figlio tra le macerie ma il giorno dopo era qui. In fabbrica. Con le maniche rimboccate. “Cosa ci fai? Dovresti essere a casa” ricordo di avergli chiesto. E lui: “Cavaliere, se resto a casa perdo la testa, meglio lavorare”. È grazie a persone come lui che ci siamo rialzati».
Parla uno dei padri dell’industria friulana. Uno che a soli 16 anni, da altre macerie, quelle della Seconda Guerra mondiale, con lo sguardo creativo e pieno di speranza nel futuro che è proprio della gioventù, s’inventa un mestiere. Capisce che i rottami ferrosi delle bombe cadute a pochi metri dalla sua casa di Piovega, a Gemona, possono essere rivenduti.
Possono diventare il suo oro. È così che inizia l’epopea imprenditoriale di Andrea Pittini, che oggi taglia l’ennesimo traguardo. Quello degli 85 anni d’età. Non fosse domenica, c’è da scommettere che il cavaliere, l’avversario, l’avrebbe festeggiato al lavoro.
Nel suo ufficio, saldo al terzo piano della palazzina dirigenziale al cuore delle Ferriere Nord di Osoppo. Un palazzo nuovo fiammante. Vetro e acciaio in ossequio agli ultimi dettami dell’architettura industriale dove ogni mattina, puntuale, Pittini fa il suo ingresso.
Torna in plancia. Come da 70 anni a questa parte. È lì che qualche giorno fa l’abbiamo incontrato. «Vi sta aspettando». La segretaria indica la porta semiaperta di un ufficio in fondo al corridoio. Lo troviamo seduto dietro una grande scrivania, ingombra di carte bene ordinate. Non esita ad alzarsi. Ci stringe la mano, chiede se prendiamo il “famoso” caffè. Lui? «Un Campari». Da lì in poi fermarlo è impossibile. Il nastro della memoria corre veloce. E non si può che ascoltare. Rapiti. Convinti che sentir raccontare dalla viva voce del cavalier Pittini la sua entusiasmante vicenda umana, nutrita di sostanziali pagine di storia della nostra Italia, sia un privilegio di cui far (comune) tesoro.

. Tutto è cominciato?
«Davanti alla mia casa di Piovega. Avevo 16 anni, poca voglia di studiare, la guerra era appena finita. C’erano macerie ovunque e molte schegge di ferro che iniziai a racimolare e poi a vendere. Anzitutto alla fonderia Corbellini di Udine. Poi a Bertoli e Safau. Nel giro di qualche mese conoscevo tutte le qualità del rottame. Lo compravo nelle borgate per rivendendolo, a seconda che fosse ferro o acciaio speciale, alle fonderie, ai battiferro, alle coltellerie di Maniago. A 17 anni e mezzo mi comprai una Topolino e per diversi mesi la guidai senza patente, con il solo foglio rosa. Erano altri tempi».
La ricorda?
«Come dimenticarla. Balestra corta, primissima serie, colore blu-celeste. Sgangheratella, ma ci sono andato ovunque. In quel periodo mi ero messo a demolire camion, scambiavo quelli degli alleati con i nostri, vecchi sì, ma capaci di fruttarmi oltre 3,5 quintali di metallo. Un affare. Poi sono venuti i campi Arar, dove acquistavo materiali della guerra, poi l’azienda Sponza e Zuberti di Grado».
Fu un incontro determinante...
«Ripescavano rottami dal mare con una barca munita di una piccola gru e io, naturalmente, ero un loro cliente. Mi davano “chilometri” di filo elettrico che tagliavo a 12 metri, la lunghezza del tondino. Bruciavo la gomma e ne ricavavano 19 fili sottili, che all'epoca mancavano. Li rettificavo e li rivendevo a Fontaniva, alle aziende Velo, dove si facevano le cisterne di cemento. Dopo 5 anni passati a recuperare tondini decisi che dovevo iniziare a produrli.
Nasce così l’impresa Pittini?
«Acquistai i miei primi macchinari dal fallimento della trafileria Modotti che faceva chiodi. Tolsi la trebbia di mio padre e al posto di quella installai i primi macchinari. Andai a Lecco per imparare il mestiere e dopo averglielo “rubato” tornai a casa. Là facevano chiodi e io imparai a fare reti metalliche. Lavoravo giorno e notte e non ci volle molto perché tra il vicinato si levassero le prime voci di protesta».
Cioè?
«Si lamentavano perché di notte non potevano dormire causa il rumore dei macchinari, gli ingranaggi delle trafile. Per me era pazzesco, stavo solo lavorando, ma a quel punto decisi di spostarmi e dopo essermi guardato un po’ in giro misi gli occhi su un’area di Rivoli. A metà anni ’50, quella che oggi è zona industriale, era tutto prato. Comprai e insieme agli amici di allora, Fantoni, Dondé, De Simon e Cosani fondammo la Ziro, presidente l'avvocato De Carli. Realizzammo tutto a spese nostre. Strade, fognature, illuminazione e nel 1960 iniziammo a tirar su i primi capannoni. Lei non sa quanto se la presero i politici perché non erano stati coinvolti. Fatto sta che a quasi 60 anni dalla sua fondazione questa zona industriale è oggi tra le più importanti della regione e con le sue 30 aziende dà lavoro a centinaia di persone».
A proposito delle industrie friulane. Il Pil è tornato finalmente al segno più, la crisi è passata?
«Finalmente, sì ma sono convinto che non torneremo più ai vecchi tempi. È impossibile».
In questa crisi il mondo è cambiato, anche quello dell’acciaio?
«È diminuita la domanda ed è aumentata l’offerta. L’edificazione spinta cui eravamo abituati in Italia non tornerà più, ma è inutile piangersi addosso».
La sua ricetta?
«Guardi, gliela spiego raccontandole cos’ha fatto Ferriere Nord. Tre anni fa esportavamo il 24%, oggi siamo arrivati al 54%. Abbiamo spinto sull’acceleratore grazie alla determinazione, alla capacità delle persone che lavorano per noi. Lo ripeto, inutile piangersi addosso».
È lo stesso motto di 40 anni fa?
«Ero a Milano il 6 maggio 1976. Mi precipitai in Friuli. Tutto era distrutto. La fabbrica, dove allora lavoravano 1.300 persone, rasa al suolo. Era rimasta in piedi solo la palazzina degli uffici. Nei crolli avevamo perso 7 operai e 39 persone erano ferite. Potevamo piangere, oppure ripartire».
L’indomani eravate al lavoro, è storia del Friuli...
«Il 7 maggio eravamo in azienda. Dopo una settimana ci seguì anche Fantoni. Ricordo mio figlio Federico (oggi amministratore delegato del gruppo) che era un bambinetto, venire a vedere i lavori, con un caschetto in testa. È cresciuto in quest’azienda. Insomma, non ci siamo lasciati andare allo sconforto».
È stata la più grande prova per il Friuli?
«Devo dire di sì. Peccato che oggi sia dimenticata e che nessuno parli mai del Friuli, per non parlare della Carnia, eppure non è certo Trieste che porta avanti l’economia di questa regione».
Ce l’ha con Trieste?
«È il nostro maggior centro di spesa, al contrario del Friuli, che ha sempre pagato la propria debolezza. E una politica poco incisiva».
Lo crede anche oggi? Nonostante la presidente Debora Serracchiani, che è anche numero due del Pd?
«Serracchiani mi piace molto. È persona che stimo. E poi è giovane, sembra una ragazzina con quella “piniute” (frangetta). Resta che governare non è facile. E che da friulano lo ripeto: siamo dimenticati».
E che giudizio ha del premier Matteo Renzi?
«Anche lui mi piace, ma come si fa a gestire uno Stato come questo? Pensi solo ai dipendenti pubblici che nessuno può licenziare. Pensi a Roma, alla miriade di enti che se lei chiudesse tutti per un giorno sono convinto nessuno se ne accorgerebbe. Abbiamo un apparato statale pachidermico che va disinfettato».
Non c’è due senza tre: di Silvio Berlusconi cosa pensa?
«Lo conosco bene. Ci siamo visti diverse volte. È anche venuto a trovarmi qui a Osoppo. Avrebbe voluto convincermi a scendere in politica...».
E perché non c’è riuscito?
«La politica? Sono astemio (ride Pittini). E poi non avevo tempo. Correvo da un angolo all’altro dell’Europa. Specie in Germania. Lì mi volevano bene. Ho sempre fatto grandi affari».
Perché oggi il grande Paese della Cancelliera Merkel è visto come fumo negli occhi?
«Tutta invidia. Provi a fare un contratto in Germania. Le basterà una stretta di mano. Lì funziona così. Ordine. Onestà. Rettitudine. Puntualità. Ero l’unico italiano ad andare a contrattare prezzi e consumi (spesso a bordo dell’aereo bireattore preso in società con Snaidero e Cogolo)».
Oggi l’Europa appare debole. È così?
«È troppo poco Europa. Guardi il test dei profughi. Ogni Stato è andato per conto suo».
E il Friuli?
«Il Friuli deve riguadagnare spazio. La Regione deve avere sempre maggiori poteri a discapito dello Stato centrale. La Specialità va difesa, ma anche disinfettata. Dovremmo prendere esempio da Paesi di lingua tedesca: maggiore disciplina, ordine, politica retta. L’economia è pronta a fare la sua parte».
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