Paziente invalida dopo l’agobiopsia: l’ospedale le darà quasi 100 mila euro

Dopo l’agobiopsia epatica che le fu praticata all’ospedale di Udine per una sospetta formazione tumorale al fegato, nell’agosto 2007, la sua vita non è più stata la stessa. E non perché quel sospetto avesse trovato conferma nell’esame diagnostico, bensì per il danno fisico che l’intervento le aveva causato: «ematoma epatico ed emoperitoneo». Una complicazione che, all’età di 32 anni, la costrinse a un lungo ricovero, svariati interventi chirurgici e un passaggio in Tearpia intensiva. E che le ha comportato in seguito dolori persistenti alla zona addominale, determinandole anche una patologia psicologica e il rischio di gravidanze problematiche. In termini clinici, un’invalidità permanente quantificata nella misura dell’11 per cento. Per tutto quel che avvenne e le costò, ora, a pagare sarà l’Azienda sanitaria universitaria integrata “Santa Maria della Misericordia”. Discostandosi dal giudizio espresso in primo grado dal tribunale di Udine, la Corte d’appello di Trieste ne ha infatti affermato la responsabilità per «negligente e imperito trattamento successivo all’agobiopsia epatica» e l’ha condannata a risarcire alla paziente, una friulana oggi 45enne, circa 98 mila euro di danno patrimoniale e morale, interessi e spese mediche e di lite compresi.
L’impugnazione
La sentenza è stata emessa dalla seconda sezione civile presieduta dal giudice Patrizia Puccini (a latere, i colleghi Salvatore Daidone e Mauro Sonego, consigliere relatore), dopo l’impugnazione del provvedimento che, nel giugno 2016, aveva rigettato analoga domanda di risarcimento. Assistita dallo Studio3A-Valore spa, la donna aveva lamentato come il tribunale di Udine, nel «recepire acriticamente le conclusioni cui era pervenuto il consulente tecnico d’ufficio», professor Giuseppe Fortuni, «pur in difetto di congrua documentazione, avesse escluso la responsabilità dell’ospedale». L’appellante, in particolare, aveva osservato come fosse stata «data per certa l’effettuazione di un’ecografia post operatoria e la sua sottoposizione a un congruo periodo di osservazione, sulla base delle sole dichiarazioni dei medici della struttura ospedaliera», e sostenuto come, se le cose fossero andate veramente così, «sarebbe stato possibile individuare tempestivamente il sanguinamento ed evitare o quantomeno contenere l’infezione epatica».
La difesa
Costituitasi in giudizio con l’assistenza legale dell’avvocato Rino Battocletti, l’azienda aveva ribadito l’«adeguatezza» del trattamento riservato alla paziente e aggiunto come il ctu avesse già chiarito che, «in assenza di precisi sintomi e del lento e progressivo insanguinamento, un’ecografia verosimilmente avrebbe potuto rappresentare la raccolta ematica intraepatica solo a una certa distanza temporale dall’esecuzione dell’operazione». Da qui, la decisione della Corte di rimettere la causa in istruttoria e rinnovare la consulenza tecnica medica, incaricandone il dottor Enrico Belleli.
Battaglia di consulenze
Il nuovo accertamento ha confermato la «congruità dell’agobiopsia epatica praticata e la sua corretta esecuzione», ma si è discostato dalle conclusioni del collega rispetto all’adeguatezza della gestione post-operatoria. Il professionista ha evidenziato come «non fosse stata effettuata alcuna ecografia» e precisato che «l’eventuale periodo di osservazione post-operatorio di circa tre ore indicato nella precedente consulenza tecnica, sulla base di atti rimasti ignoti, risulti troppo breve rispetto alle problematiche insorte nel corso della biopsia». Fatte proprie le conclusioni del secondo ctu, i giudici hanno quindi ritenuto accertato che «tali comportamenti omissivi ritardarono l’individuazione delle complicanze che, se tempestivamente rilevate, avrebbero quantomeno limitato il danno». In pendenza del termine per la presentazione dell’eventuale ricorso per Cassazione, la paziente ha fatto sapere, attraverso lo Studio3A, «che se nulla ripagherà ciò che ha patito in questi anni», la sentenza le ha reso almeno «un po’ di giustizia». —
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