Nella Casa del popolo della Bassa friulana, tra i compagni senza la tessera Pd

Nel 1948 Aquileia contava 3 mila abitanti e 800 iscritti al Partito comunista. Oggi i residenti sono più o meno gli stessi, ma i tesserati al Pd non superano la trentina. Lungo gli argini della Natissa, i comunisti si sentono orfani di un partito che, ripetono, non fa tesoro della storia partigiana e della Resistenza, della storia operaia che dai braccianti conduce ai cantieri di Monfalcone

AQUILEIA. «Nel 1948 Aquileia contava 3 mila abitanti e 800 iscritti al Partito comunista. Oggi i residenti sono più o meno gli stessi, ma i tesserati al Pd non superano la trentina». Lungo gli argini della Natissa, i comunisti si sentono orfani di un partito che, ripetono, non fa tesoro della storia partigiana e della Resistenza, della storia operaia che dai braccianti conduce ai cantieri di Monfalcone.

Là dove si è consumata una delle sconfitte del centrosinistra più dolorose degli ultimi anni, con una eco che pesa ancora come un macigno nel cosiddetto “triangolo rosso” tra Aquileia, Terzo e Fiumicello. Cervignano non è da meno. Il nostro viaggio parte dalla Casa del popolo di Aquileia dove convivono, da separati in casa, il Pd e i fuoriusciti dal partito che ritrovano gli ideali in cui continuano a credere solo nelle immagini appese alle pareti di Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer.

Qui si guarda al 4 marzo con molta incertezza. Il rischio che una buona parte degli elettori non vada a votare è reale anche se ogni famiglia potrebbe trovare la motivazione per farlo nel filo che le riporta alla guerra di Liberazione. Ed è proprio questo lo smacco più insopportabile.

Tra Pci e Pd, la Casa del popolo ad Aquileia divisa dalle tessere di partito


Ad Aquileia arrivo in una mattinata uggiosa. In via Zorutti 1, davanti all’ingresso della Casa del popolo spicca il manifesto elettorale di Giorgio Brandolin candidato del Pd nel collegio di Gorizia. Lo stesso manifesto è attaccato con lo scotch all’interno dove l’ex sindaco, Nevio Puntin, oggi presidente della fondazione Valmi Puntin che gestisce la struttura sorta su quasi un ettaro di terreno, discute con il tesoriere Franco Andrian, come completare le piccole manutenzioni che l’edificio richiede.

«La Casa del popolo di Aquileia è l’ultima nata in Friuli e in Italia. Dal 1946, Aquileia ha sofferto il fatto di essere la città depositaria di una storia millenaria, romana, paleocristiana e patriarchina: tutti i siti individuati dal Pci per la Casa del popolo venivano osteggiate dalle Belle arti con il connubio della Chiesa». In pieno stile Peppone e don Camillo.

Ma il racconto di quegli aneddoti accende lo sguardo di Andrian: «I giovani vedono la politica in un altro modo rispetto al nostro, vogliono cancellare tutto e io non voterò Pd. Non lo farò perché sono abituato a sapere per chi voto e votare Renzi significa votare lui». Nella Casa del popolo la politica di Renzi non convince. I compagni, qui continuano a chiamarsi così, sono convinti che il rottamatore non abbia nulla a che fare con la personalità politica di Berlinguer al quale hanno chiesto i soldi per costruire la Casa del popolo e lui si stupì.

«“Mi chiedete un contributo per costruire la Casa del popolo quando in Toscana e in Emilia le stanno vendendo?” disse ad Andrian e lui gli risposi «“noi qui abbiamo una potenza di fuoco”». Come andò a finire? «Berlinguer – continua con orgoglio Andrian – ci fece avere 15 milioni di vecchie lire». Il resto dei soldi il Pci li recuperò attraverso l’organizzazione della festa dell’Unità, mentre la manodopera veniva garantita dai compagni che dedicavano il loro tempo al popolo. Andrian e Puntin vorrebbero poter dire che quella forza non è mai venuta meno, ma non possono farlo perché, oggi – sono costretti ad ammetterlo – «gli operai votano Lega o Movimento5stelle.

Li abbiamo persi». Andrian lo ripete sotto voce perché anche lui lavorava nel luogo che sarebbe diventato la culla delle navi da crociera. Dovette scegliere se iscriversi al circolo del Pci creato all’interno dei cantieri di Monfalcone o a quello del suo comune. Scelse Aquileia e lo fece perché il suo Comune appoggiava «le battaglie degli operai, condivideva i loro ideali, i valori, la passione, non venivano mai lasciati soli. Oggi, invece, gli operai non trovano questo sostegno e se ne sono andati dal Pd». I compagni non lo accettano e se pensano alla Cal, la cooperativa aquileiese del lavoro, che nel dopoguerra rappresentava un punto di approdo per centinaia di persone, la rabbia segna i loro volti.

Puntin cita nomi e cognomi anche dei protagonisti meno noti del partito, il suo pensiero vola al 1938, alla storia che ha letto e riletto per scrivere programmi elettorali e di governo. Racconta di quando Mussolini visitò Aquileia e degli antifascisti finirono in prigione 10 giorni prima del suo arrivo. «La storia non si può dimenticare», ripete l’ex sindaco imputando al Pd di non saper fare tesoro del suo passato. E per meglio chiarire la sua tesi, mi accompagna dentro la sua storia personale e quella della Casa del popolo. Iscritto nel 1964, aveva 16 anni ed era il momento in cui il Pci piangeva Togliatti morto a Jalta, Puntin ha fatto parte della Organizzazione giovanile comunista (Fgci) all’epoca guidata da Achille Occhetto.

È stato dirigente del Pci, segretario della sezione di Aquileia, vicesindaco e sindaco dal 1975 al 1995. Puntin ha visto nascere la Casa del popolo dove custodisce l’archivio del Pci, riordina la biblioteca con i 42 volumi dell’intera opera di Lenin e il pensiero di Gramsci, lo schedario degli iscritti del Pci, i verbali delle riunioni del direttivo, i santini con la falce e il martello, le copie dell’Unità e L’illustrazione italiana.

L’archivio va consultato. I fuoriusci dal Pd lo ribadiscono commentando le selezioni dei dirigenti avvenute negli ultimi anni: «L’importante è che sia nuovo perché se è nuovo non è compromesso, è pulito. Poco importa se poi non sa che cos’è una delibera. Noi prima di diventare qualcosa e qualcuno dovevamo fare il garzonato nel partito, nella cellula, nella sezione, dovevamo confrontarci con uomini e donne per candidarci in Comune».

Bussano alla porta, è Danilo Cecchetto un altro compagno fuoriuscito dal Pd. Danilo è vice presidente della Fondazione, anche lui ha amministrato la rossa Aquileia. «Questa è la Casa del popolo e del Pd, dovrebbe essere un tutt’uno ma siccome non è possibile siamo divisi». Sguardo profondo come quello degli uomini in prima linea, Danilo fa notare che il Pd come l’Anpi e le altre associazioni, pagano l’affitto per utilizzare questi spazi. Da ex sindacalista, vorrebbe poter dire che l’articolo 18 non è stato eliminato. Nel triangolo rosso il Jobs-act non viene digerito.

«Gli operai si sentono privati dei diritti per i quali hanno lottato», insiste Puntin per aggiungere poi che «la Fondazione ha acquisito il patrimonio del lavoro volontario del Pci. Il lavoro di centinaia di iscritti e simpatizzanti che hanno dato il loro contribuito per costruire questa struttura. È tutto documentato nel registro che ancora conserviamo». Sono storie di rigore e disciplina. Emblematica quella del presidente della cooperativa agricola espulso dal Pci e riammesso dopo l’autocritica.

Storie passate che secondo i fuoriusciti del Pd possono insegnare ancora molto. Invece non avvertono più neppure l’eco di questa lezione. Ecco perché hanno restituito le tessere del Pd. Dire dove andranno questi voti è impossibile. Qualcuno guarda con interesse a Leu, altri temono l’astensionismo. Si citano i dati delle ultime amministrative a Terzo dove il centrosinistra ha vinto per una manciata di voti. Lo stesso è accaduto ad Aquileia. «Bastava che due famiglie votassero dall’altra parte e qui cascava una storia intera». Puntin non si rassegna: «Mancano grandi pensatori in grado di indirizzare il popolo», ripete definendosi «un orfano di partito dal 2015, dall’anno in cui non ho più rinnovato la tessera».

Puntin si è sentito tradito anche da Bersani, «non avrebbe dovuto modificare lo statuto del partito per permettere la scalata a Renzi». Come lui molti altri. Ma Puntin qualche voto lo sposta nonostante non lo dia a vedere. Elegantemente fa notare che dovrebbe esporre il manifesto dell’Anpi ma non lo fa per non coprire quello di Brandolin. Certamente, però, aggiunge, «diverse persone mi chiedono “cosa facciamo?”».

I compagni sono «disorientati», seguono i candidati di Leu, ma non sempre trovano risposte. «Sa cosa ha significato aprire questa porta con le primarie del Pd in corso e vedere la gente del centrodestra entrare e votare? Ci tremavano le budella. Tanta gente da allora diserta i seggi perché non si riconosce più nella politica».

«Il cambio di rotta – spiega il consigliere regionale Mauro Travanut – risale all’avvento di Serracchiani: forte del suo grande consenso si è costruita attorno a sé una squadra che ha dettato le regole mortificando l’autonomia di pensiero. Anch’io sono stato messo all’angolo».

Oggi Travanut è un uomo di Liberi e uguali. Ricorda «l’individualismo esasperato degli anni Ottanta che si rafforzò negli anni Novanta fino ad arrivare al tramonto dei giorni nostri. Adesso il mondo va riorganizzandosi, ma resta una buona dose di spaesamento. Le mosse sono incerte dipende da quello che capiterà il 4 marzo e alle regionali. La gente non si raccapezza più».

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