Lega, dalle camicie verdi al vento del “Capitano”

«Basta con gli sputtanamenti di corridoio e con le guerre intestine, non dobbiamo più spararci tra di noi». Era il 1999 e Alfredo Pasini, allora potente sindaco di Pordenone, arringò il popolo delle camice verdi con la schiettezza che lo ha sempre contraddistinto, durante il congresso provinciale del partito. Il segretario era Danilo Narduzzi. A vent’anni di distanza quelle parole si potrebbero definire profetiche e potrebbero sintetizzare buona parte della vita di un partito, la Lega (ex) Nord, che ha fatto la storia della seconda Repubblica anche in provincia.
Una storia fatta di intrighi e passioni, meglio di una serie tv, al punto che a guardare oggi il Carroccio, prima forza di governo in regione e in provincia (alle elezioni del 2018 la Lega ha ottenuto il 36,7 per cento dei voti, portando a casa 39 mila preferenze in provincia) sembra incredibile che si tratti dello stesso partito. Un miracolo? Più probabile l’effetto Salvini: il carisma del leader è stato capace di accentrare tutto su di sè, consentendo al partito di soffrire meno degli altri la generale disaffezione alla politica.
E sì che, se c’è una cosa che non è mai mancata alla Lega Nord, quella è il leader. Per i padani della prima ora, Umberto Bossi era unico e inimitabile (almeno fino allo scandalo giudiziario). Sembra passato un secolo – ma sono trascorsi poco più di 20 anni – da quando il magistrato veronese Rocco Papalia aprì un’inchiesta, con l’accusa di banda armata, nei confronti di Bossi e 34 militanti e, al congresso provinciale del 1998, Edouard Ballaman si presentò con il cappellino dei detenuti di Alcatraz.
Erano gli anni del Comitato della liberazione della Padania, dell’alzabandiera padano in piazza XX settembre, del Nord contro i “terroni”, al punto che a Pordenone nacque il movimento di protesta contro “il razzismo” verso il sud, quello degli adesivi con sfondo giallo sul quale era impressa una grossa “T” di colore nero, la T di Teròn. Oggi quel partito è diventato nazionale abbracciando il sud, i nuovi “terroni” sembrano piuttosto i migranti.
Sempre in quell’anno, 1999 – con un fortissimo Roberto Visentin, senatore e segretario nazionale (regionale) e con alla Camera Edouard Ballaman – la Lega Nord in provincia contava su 99 consiglieri comunali, 6 sindaci (tra cui Alfredo Pasini a Pordenone, Alido Gerussi a Spilimbergo, Paolo Panontin ad Azzano Decimo e Nicola Zille a Porcia), e quattro componenti in Provincia. Anni in cui il Friuli occidentale era la roccaforte leghista del Fvg e non a caso i segretari regionali, pardon nazionali, o commissari saranno spesso espressione del territorio: Visentin, Ballaman (commissario di transizione), Beppino Zoppolato. Anni turbolenti, ricordati per le cosiddette “purghe”.
Non basterebbe un libro per raccontarli. Basti pensare all’ascesa di Marco Pottino – segretario provinciale prima e regionale poi (con il braccio destro Albertino Gabana) – che espellerà lo stesso Visentin. Nel 2003 toccherà a un altro pordenonese prendere le redini del partito regionale: Fulvio Follegot. Saranno gli anni delle tensioni in Provincia e di uscite eccellenti. Gli anni dei visitors e della sconfitta alle regionali contro Illy.
Una pace, apparente, arriverà con il congresso del 2006, quello in cui l’alleanza tra il popolare sindaco di Azzano Decimo – il sindaco antiburqua – Enzo Bortolotti e i decani Danilo Narduzzi (già assessore regionale) e Ballaman, porterà alla nomina di Bortolotti contro la linea di Pottino. Il giovane Pottino cadrà in disgrazia anche per l’essersi guadagnato un posto blindato alla Camera (e con lui Gabana al Senato) alle politiche. Poco dopo anche lui e Gabana saranno fuori dal partito. Nemmeno il triumvirato, tuttavia, durerà. Ballaman, che nel 2008 viene eletto presidente del consiglio regionale, sarà travolto dallo scandalo dell’auto blu per fuoco amico. Poi toccherà a Narduzzi, nel tritacarne dell’inchiesta sulle “spese pazze” del consiglio regionale. Bortolotti, anche lui in guai giudiziari, sarà “costretto” pian piano a lasciare la scena.
L’avvento di Matteo Salvini sembra aver rappacificato o forse tacitato ogni forma di velleità locale. L’attuale segretario provinciale è Stefano Zannier. Proprio lui, l’ex assessore provinciale dell’esecutivo Ciriani, ora assessore regionale all’agricoltura nella giunta regionale a trazione leghista. Il suo incarico sarebbe scaduto, ma nessuno scalpita nel partito per andare a congresso. «È veramente un momento felice per il partito e credo lo si possa misurare direttamente dai militanti – dice Zannier –. Quello che ci sta a cuore è non perdere il rapporto con i cittadini e gli elettori. Noi siamo da sempre il partito dei gazebo per cui nelle prossime settimane, anche in vista dei prossimi appuntamenti delle amministrative e delle europee torneremo nelle piazze. Andremo a parlare delle nostre riforme, dalla sanità agli enti locali». Osservata speciale resta la città, dove la Lega ha la sua sede provinciale – una delle poche “sopravvissute” alla crisi dei partiti – e dove la sezione, dopo la spaccatura nel 2016, può crescere.
La Lega pordenonese ha un sottosegretario a Roma – la già maroniana di ferro Vannia Gava, che è riuscita a creare alleanze strette anche a centrodestra, a partire da Fratelli d’Italia – e ha un folto gruppo in Regione che è il frutto di un sostanziale rinnovamento. È pordenonese il consigliere più giovane, Simone Polesello indicato da molti come il futuro del movimento locale, così come sono espressione del territorio alcuni consiglieri di esperienza: gli ex sindaci di Brugnera, Ivo Moras, e di Porcia, Stefano Turchet. Tale è la sicurezza del partito, che nessuno scalpita nemmeno per imporre candidati sindaco alle prossime amministrative (almeno a parole). Forse perché le ultime elezioni a Sacile e Spilimbergo hanno dimostrato che il simbolo non sempre basta. La differenza, più che Alberto da Giussano, la fa il Matteo nazionalpopolare. E se non si vota per lui, le cose cambiano.
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