L'autonomia da De Gasperi al Renzismo

In Friuli gli autonomisti (alcuni autentici, altri sedicenti, altri politicanti di partiti in crisi a caccia di nuova linfa elettorale) accusano il governo Renzi di volerci togliere la specialità. Questo improvviso ritorno di bandiere e istanze friulaniste ha scaldato il clima politico, ponendo questioni in parte fondate e in parte no. Gridando “al lupo” quando il lupo c’era, ma anche quando non c’era.

Da qui la sensazione dei partiti tradizionali, che vi sia in corso una strumentalizzazione politica nel nome dell’autonomia. Il governatore Debora Serracchiani, esagerando, ha parlato di “fobia”, mentre io resto convinto che il popolo non abbia mai fobie ma più spesso sia il Palazzo che non coglie fino in fondo l’origine di certe paure e il rimedio da porvi, come il Pd ha avuto modo di verificare alle regionali del Veneto.

Renzi in Friuli: «Friulani tosti e operosi, adesso aiutate il Paese»

Comunque sia, di fronte alle accuse mosse al governo di lavorare a un piano di indebolimento delle Regioni s’è levata una protesta che mescola soggetti e contenuti molto diversi. Forse va messo un po’ d’ordine. Se la mettiamo sul derby ordinarie-speciali, certo che con le cugine non corre buon sangue e c’è chi, da sempre, trova ingiustificato il “privilegio” che ci è accordato con legge costituzionale. Fin qui niente di nuovo.nbsp;

Ma cosa succede a Roma? Davvero l’autonomia è a rischio? Ecco i fatti: da una parte il governo ha accettato in Senato un ordine del giorno di Raffaele Ranucci (Pd) che impegna a prendere in considerazione la riduzione delle Regioni.

Ma, come ha confermato il ministro Maria Elena Boschi, la cosa non è all’ordine del giorno. Dall’altra parte, con l’emendamento Zeller 39.700 approvato lo stesso giorno si conferma invece la necessità dell’intesa Stato-Regione per le modifiche statutarie.

Per arrivare alla revisione della costituzione di cui stiamo discutendo ci sono voluti 30 anni: la Commissione Bozzi è del 1983. Difficile dire che la specialità, almeno sul piano istituzionale, sia a rischio nei prossimi venti. Anzi, forse non è mai stata più sicura. Il punto è, semmai, che le speciali sono sopravvissute anche alla riforma costituzionale.

Da dove viene allora questa sensazione di “pericolo”? La ragione sta nel fatto che, fra la salvaguardia della specialità e l’esercizio della specialità, ci passa un oceano.

E il renzismo, la spinta riformista del premier che abbiamo avuto modo di ascoltare anche ieri durante la sua visita lampo in Friuli, ci fa capire che serve un grande progetto di ammodernamento del concetto politico di “autonomia”. In sintesi: la specialità è blindata, ma adesso va esercitata in maniera nuova e moderna. L’obiettivo non può che essere uno: dalle regioni speciali dovrà arrivare un modello più virtuoso dello Stato, altrimenti nel tempo la questione del futuro di queste regioni si porrà davvero.

C’è un punto, infatti, che deve essere tenuto fermo proprio da chi difende l’autonomia differenziata delle Regioni a Statuto speciale: l’autogoverno non deve costare alla collettività più di quanto costi lo Stato. Non lo dico io, lo disse Alcide De Gasperi durante l’Assemblea costituente, nella sessione che si dedicò proprio all’approvazione dello Statuto di autonomia speciale: «Io che sono pure autonomista convinto – diceva De Gasperi – e che ho patrocinato la tendenza autonomista, permettete che vi dica che le autonomie si salveranno, matureranno, resisteranno, solo a una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale, migliori del sistema accentrato statale, migliori soprattutto per quanto riguarda le spese».

A questo punto dobbiamo leggere i dati e non fermarci alle suggestioni: le regioni con le carte in regola in Italia sono quattro: Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. Lì gli abitanti pagano al fisco più di quanto ricevano in cambio. In tutte le altre regioni – Friuli Venezia Giulia compreso – il rapporto si rovescia.

E oggi anche in Germania, i lander più piccoli e in particolare la Saar stanno chiedendo di unificarsi perché non ce la fanno più a pagare i debiti. E la Francia ha ridotto le regioni da 22 a 12. Qui non c’è stata paura che lo stato “venisse”, ma piuttosto che lo stato “se ne andasse”. Perché l’Europa delle regioni, dei territori non può stare in piedi se non stanno in piedi i bilanci di quei territori.

Ecco che, dopo avere garantito l’autonomia “salva” come ha fatto Serracchiani, infastidita soprattutto da chi, nell’opposizione, sembra usare la paura del futuro speciale per rifarsi una verginità politica, e ce ne sono, è venuto il tempo delle grandi riforme, in parte avviate, che mostrino il passaggio politico dall’era dell’autonomia rivendicata a quello dell’autonomia esercitata. Cosa faremo di autonomo, di autentico, in anticipo sullo Stato capace di mandare avanti un pezzo del Paese e di dimostrare al resto d’Italia che abbiamo fatto come diceva De Gasperi e quindi lo spirito profondo della nostra specialità è salvo?

Concludo citando Napoli. Il primo provvedimento del nuovo governatore della Campania sono le sanzioni per i dipendenti che rallentano le pratiche. Recita così: in caso di mancato rispetto dei termini non riconducibile a gravi, documentati e giustificati motivi, il funzionario responsabile viene sanzionato con il taglio del trattamento economico accessorio. In pratica i dipendenti pubblici campani che fanno perdere tempo a cittadini e imprese pagano di tasca loro, con penalità che arrivano fino a qualche centinaio di euro al mese.

La Campania è una Regione ordinaria, spesso citata per l’inefficienza e per gli sprechi, che fa una cosa più avanzata dello Stato, quindi speciale. Perché la specialità non è una dimensione storica, non è memoria di quello che è stato, non è un sacrario dove portare fiori o corone d’alloro. Lo statuto obbliga la Regione a essere speciale, usando al massimo i poteri. Per progettare un futuro che possa essere preso a modello da chi quei poteri non li ha.

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto