La polenta senza tempo con la “blave di Mortean”

Ancora una storia di lavoro nei campi. Silvia Paravano ripristina le tradizioni friulane nella sua azienda. Iscrivetevi qui a NoiMV - Le nostre newsletter - Gli eventi

«Polenta mia, guai se qualcuno parlerà male di te». È l’elogio di Padre David Maria Turoldo al cibo essenziale della sua adolescenza. Il frate di Coderno dedicò pagine intense alla sua terra. Raccontò la civiltà contadina fondata sul duro lavoro: tante pannocchie, cotte ai margini dei campi; ancora pannocchie, sgranate col ferro sino a farsi male alle mani; e altre pannocchie, che diventavano farina negli antichi mulini di pietra. «E finalmente la polenta!» esclamava Padre Turoldo, con la sua forza narrativa: «Alla mattina, latte e polenta; a mezzogiorno, minestra e polenta; alla sera, radicchio e ancora polenta.

Nei giorni di magra, io ricordo mio padre che tagliava due fette dalla piccola montagna d’oro e me ne metteva una per mano e mi diceva: “Ecco, una la chiamerai polenta e l’altra formaggio”. E io che ci credevo e addentavo ora da una mano ora dall’altra, fingendo di mangiare proprio polenta e formaggio». Nei paesi friulani si diffondeva il profumo caratteristico di quell’alimento di vita, miracoloso per molte generazioni. La polenta prendeva forma e consistenza nel paiolo messo sulla stufa a legna e, come ultima operazione, veniva rovesciata ancora bollente sul tagliere. Immagini sbiadite di tempi passati.

Il progresso ha portato un’alimentazione più ricca e più varia. La polenta si fa ancora, se non altro come testimonianza di storia e identità, ma è un cibo residuale, ormai legato alle tradizioni. Il mais registra numeri importanti in tutta l’Italia Settentrionale, ma la coltivazione è spesso inserita dentro logiche di sfruttamento intensivo dei terreni. Sono i gruppi industriali a dettare le condizioni e a fare i prezzi. Sono stati stravolti i modi di utilizzo dei cereali rispetto al passato. Una parte consistente della produzione è legata al settore della zootecnia, un’altra viene trasformata in energie alternative e biocarburi. È di questi giorni la notizia dello storico sorpasso, in Friuli Venezia Giulia, della soia sul mais in termini di ettari coltivati: 51 mila contro 50 mila. E’ il segno di una lotta tra grandi colossi economici per accaparrarsi fette di mercato. La polenta di Padre Turoldo non c’entra più nulla.

Il recupero dei valori locali. C’è però un territorio particolare, nel cuore delle campagne vicino a Udine, che ha mantenuto il rispetto delle tradizioni agroalimentari. All’ombra del campanile di Mortegliano, che con i suoi 113,20 metri è il più alto d’Italia, si è sviluppato un minuscolo Corn Belt friulano in grado di sfruttare il microclima ideale per la coltivazione del mais, con tanto di riconoscimento del marchio Blave di Mortean. L’idea è nata da Comune e Pro Loco che nel 1998 hanno depositato il brevetto della produzione, poi inserito con decreto ministeriale nell’elenco delle specialità da valorizzare.

Coloro che aderiscono al progetto devono osservare scrupolosamente un regolamento, fatto di protocolli su metodi e lavorazioni. Guai a sgarrare: la semina avviene con varietà autoctone; le pannocchie vengono raccolte manualmente per selezionare quelle idonee a garantire una farina di qualità; la macinazione dei grani, bianchi e gialli, rispetta i criteri dei vecchi mulini. Alla fine dei procedimenti resta integra l’anima del Friuli, che mette assieme vecchio e nuovo. Nell’ambito di queste iniziative, l’azienda agricola di Franco Paravano ha avviato per prima l’attività sotto la sua denominazione: La Buine Blave. Nel 1999, è stata la figlia, fresca di diploma all’istituto agrario di Cividale, a dare concretezza al progetto di famiglia.

«Durante gli studi – racconta con orgoglio Silvia, oggi quarantenne – mi ero appassionata soprattutto alle materie di tecnologia alimentare, perché ho sempre ritenuto importante il dialogo fra produttori e consumatori. Questi ultimi hanno il sacrosanto diritto di sapere cosa mettono in tavola». Questa forma di trasparenza è diventata la sua filosofia di vita: conoscere per apprezzare. «Noi nei campi lavoriamo nel rispetto delle regole: lo scriva, niente Ogm». E con l’entusiasmo senza freni di una ragazza ricca di sogni e piena di energie ha iniziato a girare i mercatini locali portandosi dietro qualche sacco di farina, oltre ai prodotti da forno fatti in casa. Proprio per le sue capacità di tessitrice di relazioni, la Coldiretti le ha assegnato l’Oscar Green. Gli affari hanno cominciato a girare, tant’è che il padre ha deciso di affidarle il core business aziendale dei cereali, trattenendo invece per sé, con l’aiuto dell’altro figlio Diego, l’allevamento delle mucche da latte.

Una nuova sfida. Silvia Paravano è di per sé un marchio di innovazione. Ha pensato infatti di gestire a modo suo i sette ettari di proprietà della famiglia destinandoli principalmente a mais (80 per cento), senza trascurare però altre prospettive interessanti: frumento (10%), orzo (5%) e farro (5%), tutti cereali di primissima qualità in grado di offrirle generosamente ogni tipo di farina da vendere direttamente, o da destinare alla trasformazione in biscotti, crackers, pasta, grissini e pane, attraverso il lavoro di alcuni artigiani locali. Queste attività sono gestite con il marchio La Buine Blave. L’azienda ha una produzione media annua di 400 quintali di farina di mais, di varietà sia bianca sia gialla, e la capacità d’impresa è completata da 20 quintali di frumento, da 10 di orzo e da altrettanti di farro.

La macinazione non è un’operazione secondaria: avviene con meccanismi a cilindri che garantiscono un tipo di farina più fine. Per soddisfare i gusti più tradizionali viene usato anche il vecchio sistema di macinazione a pietra, che assicura un prodotto più rustico, dal quale spicca il sapore inconfondibile della crusca. Non solo. Anche il packaging ha le sue regole. I sacchetti di carta esaltano maggiormente la fragranza dei prodotti, perché l’alimento è messo nelle condizioni di respirare. Ma la durata è di tre mesi, in pratica un periodo di tempo inferiore rispetto alla scadenza di un anno delle confezioni sottovuoto. Silvia Paravano è l’ideatrice e la regista delle varie operazioni aziendali.

Al suo fianco agisce silenziosamente il marito Valentino Paviotti, anche lui appassionato di agricoltura con tanto di diploma conseguito a Cividale. Per amore ha lasciato il primo lavoro di pittore edile: meglio la vita di campagna. Così in famiglia si sono spartiti ruoli precisi: a lui spetta il compito di coltivare i campi, a lei quello di orchestrare un apparato ramificato di vendite concentrate in Friuli. «Ci teniamo alle nostre radici - spiega - perché abbiamo qui il cuore delle attività. Ci sentiamo legati al territorio, perché rappresenta la nostra bandiera di storia e di cultura».

Per la verità, sono cominciate alcune incursioni in botteghe del Veneto e, timidamente, nei negozi di altre realtà dell’Italia del Nord, fino a dove può giungere il passaparola: «Ma svilupperemo iniziative di vendita anche attraverso il web, perché i social network garantiscono una potenzialità enorme di sviluppo». Intanto i coniugi - agricoltori combattono quelli che definiscono i nemici del settore: lunghi periodi di siccità, che richiedono sistemi idrici sempre più sofisticati; la diffusione della diabrotica, che è l’insetto più temuto, perché danneggia le radici del mais, provocando ingenti danni alle colture; l’invasione di prodotti dall’estero, che non sono sottoposti a controlli efficaci (perché non tutelare meglio il Made in Italy?). Mettiamoci anche la burocrazia, che porta via tempo e denaro: «Potrebbero almeno alleggerire e semplificare le procedure amministrative».

I cambiamenti epocali. La polenta non è più quella di una volta, cioè, per capirci, quella descritta in forma poetica da Padre Turoldo: preparata con amore da sua madre, «perché dentro mi sembrava che vi cuocesse il cuore». La lavorazione non era semplice: «Si faticava per renderla profumata, per tirarla a giusta cottura, che non si attaccasse alla pentola nera di ghisa, che non sapesse di fumo». Alla fine, non si scartavano neanche le croste. Oggi difficilmente si cuoce la polenta nel paiolo, sopra il fuoco alimentato dalla legna. Non ci sono le condizioni. Talvolta, il risultato è un prodotto semi-liquido che fa arricciare il naso ai cultori dell’alimento. Il sapore è cambiato, perché ci si adegua alla comodità delle cucine a gas. Ma la tradizione continua in Friuli. Silvia e Valentino si scambiano un’occhiata quasi per trovare il momento giusto per spiegare le tecniche di cottura: «Gli ingredienti sono invariati. Molto semplici: per sei persone sono necessari 500 grammi di farina da mescolare in due litri e mezzo di acqua. Sale a volontà. E vonde.

Poi è necessario metterci un po’ di olio di gomito – sorridono per spiegare che bisogna mescolare tanto – in modo da evitare grumi indesiderati. Ormai capita che, per guadagnare tempo, si finisce per mettere tutta la materia prima nella pentola a pressione. E amen, tocca accontentarsi». Loro però si sentono di fare una raccomandazione, almeno per assaporare meglio la polenta “dei tempi moderni”, in modo da esaltare i gusti rigorosamente friulani: «Polente e formadi, è ancora la morte sua».


 

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto