La crisi dell'industria, Rossignolo: «Dobbiamo convincerli a rimanere»

PORDENONE. «L’unica cosa da fare è cercare di convincerli a rimanere, però bisogna anche metterli nelle condizioni per farlo. E se ciò non fosse più possibile, che la loro uscita sia la meno traumatica. Credo che delle soluzioni si possano trovare, senza tanta cagnara e senza sobillare le piazze».
Gianmario Rossignolo non ha una ricetta magica. «Non c’è, non esiste, ci si affidi però al buon senso». Per quasi vent’anni (dal 1984 al 2002) è stato la guida incontrastata del gruppo Electrolux in Italia. Uomo di fiducia della famiglia Wallemberg, azionisti di riferimento, godeva a Stoccolma della massima considerazione. Un manager qualsiasi non lo è mai stato: nel 1979, da amministratore delegato della Lancia, lasciò la Fiat per contrasti con Vittorio Ghidella, responsabile del gruppo. Da allora divenne “l’uomo degli svedesi”.
A Stoccolma, una volta all’anno, nelle riunioni di vertice, Rossignolo non si recava nel quartiere generale della multinazionale, ma “riceveva” al Grand Hotel, dove alloggiava. Aniceto Canciani, il manager pordenonese che lo seguiva come un’ombra, ricorda ancora: «Stavamo definendo gli ultimi dettagli per l’acquisizione della Zanussi quando gli svedesi si impuntarono sul “bruno” (il settore elettronico, ndr): non ne volevano sapere. Rossignolo stava quasi per mettere le mani addosso all’amministratore delegato Sharp. E finì come aveva già deciso lui…».
Dalla sua casa di Vignale Monferrato risponde al telefono con la disponibilità di sempre. «Parlo come osservatore». Lo chiamano ancora in tanti, in queste ultime settimane anche politici friulani. Chiedono lumi, ma le sue analisi sono spietate. «Come si può pretendere che gli investitori continuino a mettere soldi qui, in questo Paese, che sta andando a rotoli... Non ci si è resi conto che in questi ultimi vent’anni sono accaduti fatti del tutto straordinari nel sistema produttivo: i capitali vanno dove vogliono, le merci viaggiano senza dogane; molti Paesi si sono convertiti con l’innovazione, si sono attrezzati e adeguati per gli scenari presenti e futuri. E noi? Stiamo ancora qui a parlare di Berlusconi...».
. Ma a Porcia e a Susegana che cosa accadrà?
«Hanno preso sei mesi di tempo e allora le ipotesi sono due: o sperano che si ricostituiscano delle condizioni accettabili per poter continuare a operare, magari su nuove basi, oppure hanno già deciso e hanno scelto una via soft. Perchè anche l’ipotesi di chiusura non è una soluzione facile. Va gestita per tempo perché non si può trasferire un prodotto in un altro Paese, dall’oggi al domani. Serviranno almeno sei mesi di tempo».
I sei mesi attuali?
«Se loro escono, lasciano. Cioè non investiranno più nei nuovi prodotti fino a quando non si spegnerà la candela. Allora è meglio cercare di capire per tempo e semmai andargli incontro».
Alla politica che cosa si sentirebbe di consigliare?
«Che almeno faccia di tutto per far cambiare loro idea. Con Electrolux non c’è più l’interlocutore italiano; mi rendo conto che non è un’impresa facile. La politica italiana non è più credibile, all’estero ci ridono in faccia. Non siamo nemmeno capaci di fare un buco per andare in Francia».
E nell’ipotesi che la decisione sia già stata presa?
«Si gestisca su basi imprenditoriali l’uscita e tutto ciò che ne consegue. In Friuli potete contare su una persona in grado di far fronte a questa eventuale emergenza. Mi riferisco a Gigi de Puppi, un manager navigato e capace. Deve essere messo nelle condizioni di trovare soluzioni alternative. Oggi ci sono. I turchi della Arcelik, ad esempio, stanno monitorando la Indesit e altri produttori. Lo stesso vale per coreani e cinesi. Il Friuli può ancora offrire una diversità di eccellenza rispetto al resto d’Italia. Avete un patrimonio di professionalità straordinario. Le competenze nel “bianco” sono uniche, e lo stesso vale per l’indotto. Solo che i problemi si sono accumulati nel tempo e hanno finito con l’aggrovigliarsi. Ora però bisogna trovare il bandolo della matassa. Si deve agire in fretta. La storia insegna che dai fallimenti si riparte, vedi i casi General Motor e Chrysler. Certo, non si può pretendere di ripartire alle stesse condizioni di prima».
Si è anche ventilata un’altra ipotesi: che a Porcia resti la progettazione, il centro studi per lo sviluppo e l’innovazione e la fabbrica in altri luoghi.
«Ma la testa è già in Svezia, da Porcia hanno portato via quasi tutto».
Si ritorna quindi all’origine dei nostri mali.
«Il mio punto di vista è che un investitore non è più compatibile con il nostro Paese. L’Italia deve rifondarsi. La tassazione, la burocrazia, il costo energetico, il cuneo fiscale, le infrastrutture stanno soffocando le imprese. Abbiamo distrutto un patrimonio come Telecom, abbiamo lasciato marcire Alitalia. Abbiamo una Pubblica amministrazione che spende quello che spende e nessuno ne parla più. E poi siamo anche un Paese forcaiolo: l’amianto, l’inquinamento, i rumori, e tutti con i fucili puntati, la magistratura in primis. Ecco, siamo degli impotenti».
L’Europa ci può salvare?
«Anche l’Europa deve rifondarsi. Adesso l’economia è in mano a Olli Rehn, finlandese, un Paese di 5 milioni di abitanti. E questo dovrebbe governare i processi produttivi di Paesi storicamente più avanzati? Suvvia...».
E’ vero che gli svedesi sono sempre stati un po’ scettici nei nostri confronti?
«Come tutti gli altri investitori, credo. Quando si mettono capitali credibilità e stabilità sono condizioni irrinunciabili. A me ogni tanto chiedevano: ma sei sicuro che non ci sia un ritorno ai tempi bui, ai tempi delle Brigate rosse? Io li tranquillizzavo, l’emergenza è stata superata, il Paese è maturato. Sì, ecco, le Br non ci sono più. Ora è il tempo dei grillini...».
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