Kugy, pacifista in divisa
È uscito negli scorsi giorni, La mia guerra nelle Giulie, (144 pagine, più cartografia tematica, 20 euro) volumetto di Julius Kugy, da Davide Tonazzi, per i tipi della sua Edizioni Saisera. Trilingue, impreziosito da un bel corredo iconografico, il testo è l’ultimo capitolo di Dalla vita di un alpinista, rimasto inedito, e vincolato anzi per trent’anni dalla morte, per volontà testamentaria. Probabilmente l’autore lo ritenne pericoloso, per uno che viveva nell’Italia fascista, e forse anche per i parenti (nella vampa del secondo conflitto mondiale, non si capiva bene dove potesse andare a parare il mondo). Kugy è uomo di pace, per il modo di porsi aperto e tollerante nei confronti della vita, e per la refrattarietà alle fregole nazionaliste che avveleneranno il secolo breve. Riformato causa miopia, Herr Doktor non nutriva simpatie per l’apparato militare (ancor meno, sottolinea, per la mensur, lo sfregio rituale apprezzato dagli studenti tedeschi). «Non sono mai stato amico della divisa», scrive ne La mia vita, aggiungendo qualche canzonatura per la pomposità degli alti gradi. Un sentimento probabilmente ereditato dalla madre, che, quando tra i corteggiatori delle figlie spuntava qualche ufficiale, opponeva un secco: «Non voglio sciabole». Quando l’altro figlio Paul fu richiamato per partecipare all’occupazione della Bosnia conseguente al Congresso di Berlino, mamma Giulia Vessel si precipitatò dal duca di Württemberg, comandante dell’operazione, per scongiurarlo di scartarlo. «Suo figlio, signora, non corre pericolo, l’occupazione sarà una passeggiata», aveva risposto questi. «Ma lei ha anche un altro figlio, Julius: quello va in montagna. Tenga d’occhio lui, che corre rischi ben maggiori». Più di trent’anni dopo ci saranno invece Sarajevo, frutto avvelenato di quella passeggiata militare, e l’effetto domino che incendierà la vecchia Europa. Nel 1915, all’ingresso in guerra dell’Italia, il quasi sessantenne Kugy si offre quale referente alpino volontario. «Non ho fatto che il mio dovere. Non è persona onesta, ma un debole, un vile, chi non difende la patria nel bisogno», scriverà poi. Stando a lettere private e riservate, recentemente rivenute da Umberto Sello negli archivi della Società alpina friulana (di cui Kugy è stato socio), a spingerlo a questo passo potrebbe essere stato un congiunto. Questa è almeno l’opinione di Carlo Chersich, all’epoca presidente della Società Alpina delle Giulie. Parentesi doverosa sul contenuto completo del carteggio: la presidenza della Saf chiede consiglio alla consorella sezione Cai giuliana in merito all’opportunità di far tenere una conferenza a Julius Kugy. Osservando che, se lo stesso duce ha detto che gli avversari di una volta non debbono più essere considerato nemici (c’è l’intesa cordiale con Hitler) però in queste terre le sensibilità possono essere diverse. Morale, la conferenza di Kugy non si tenne: aveva dunque ragione questi a non pubblicare i ricordi di guerra e a tenere nascosta la medaglia del Franz Joseph Ordnung. Nel libro, Kugy mostra sicuramente avversione verso il conflitto: «Voi, guerrafondai che state nei parlamenti e nei consigli, nelle vie e nei caffè, provate a venire con noi, per capire cos’è la guerra, cosa sono gli orrori della guerra!». Ma da diverse pagine trapela un certo orgoglio, anzi un certo narcisismo. Si definisce, il dottore, «l’Alpine referent ideale», lamentando la scarsa valorizzazione del suo ruolo: «Per questa azione l’amico Mayer venne insignito di una decorazione. A me, ideatore dell’impresa, non venne rivolta la benché minima parola di ringraziamento. Ma non importa: non è stata certamente la prima volta, né l’ultima, e forse non vale neanche la pena di parlarne. Non mi ero certo presentato volontario per poter ricevere dei ringraziamenti. Questo lo sanno tutti». In verità, da altre carte affiorate al Kriegsmuseum di Vienna Kugy si autopropose per la medaglia di Maria Teresa, non attribuita sia per la violazione della via gerarichica, sia per lo scarso spirito militarista dell’uomo. Come spiegare allora la contraddizione? Forse con una sorta di crisi senile. Nel 1915 l’alpinismo è progredito moltissimo. A Kugy tecnicamente superato, sembra che di avere un’occasione per trovare ruolo e motivazioni, per essere di nuovo grande protagonista sulle montagne tanto amare. Se il re delle Giulie si muove in difesa delle vette e delle valli, questo può surrogare l’azione alpinistica. Da Referent, fa attrezzare la gola Nord Est del Fuart, propone, invano, la conquista di cima Montasio, in mano italiana, fa realizzare la Scotti Hütte, un ricovero presidiato in tuttel le stagioni sulla vetta del Fuart, da indicazioni per la presa del Jof di Miezegnot e del Kuglich, il pulpito dove oggi sorge il bivacco Stuparich. Poi, nel settembre del ’17, viene trasferito a Soca. Di qui, dopo Caporetto, assieme al fido Miro Dovgan, il dottore segue le tracce di Rommel, e in cinque giorni, di marcia nel fango, arriva al Piave. È il momento di fare i conti con l’età. «Il mio cappotto inzuppato sembrava pesare un quintale. Dovgan era rimasto indietro con gli animali da soma. Era notte, io non conoscevo la zona, non vedevo niente, dovevo seguire la pista battuta nel fango. Una volta, mi sono dovuto appoggiare a lungo ad un albero, accaldato, senza fiato, sfinito. Il cuore sembrava non reggere». Nella nuova zona operativa la competenza alpinistica non serve a nulla. Kugy che sa l’italiano, viene adibito al servizio requisizioni, ma il compito non gli piace e nella primavera del 1918, stanco e depresso, viene congedato. Il lungo viaggio di ritorno tocca Valbruna: «Avevo provato una grande nostalgia dei boschi d’abete scuri ed odorosi di resina delle Alpi Giulie. Per prima cosa visitai la Saisera: sarei stato troppo stanco per un’uscita più impegnativa. Trovai Valbruna bombardata, incendiata, ridotta in macerie, triste proprio come l’avevo lasciata». Nel paese, l’incontro con Oitzinger, il fidato Bergführer, che lavora alla ricostruzione. «Ci stringemmo a lungo le mani, ci sedemmo poi sul prato a raccontarci le nostre avventure. Lo Jof Fuart ed il Montasio guardavano verso di noi dalle loro sommità luminose, i boschi della Saisera e della Zapraha erano nel pieno vigore estivo». Anche gli anni a venire sarebbero stati bui, ma il vecchio dottore non lo sa e l’operosità di Oitzinger riaccende in lui una luce di speranza. «In tutti i nostri distretti risuonino le martellate ed i colpi delle nostre accette, costruiremo così le basi per un futuro migliore e prospero. Vogliamo andargli incontro consapevolmente, lieti e pieni di fiducia, ed esserne degni lavorando onestamente. Quando la pace verrà, facciamo in modo che si avverino le parole del nostro poeta “È finita , tutto è passato, qui c’è gente nuova e il mondo comincia appena!”».
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