«Io, il sacilese che ha “liberato” Trieste»

SACILE. È un sacilese uno degli ultimi bersaglieri dell’ottavo reggimento che per primo entrò nella Trieste liberata del 1954, che oggi, in occasione delle celebrazioni del 60º anniversario, verrà ricevuto assieme ad alcuni commilitoni dal sindaco triestino Roberto Cosolini per firmare l’albo d’oro della città.
«Ero sul camion che trasportava la fanfara, dopo la campagnola del generale di corpo d’armata Edmondo De Renzi e il gruppo delle bandiere di guerra che aprivano la colonna di automezzi militari – racconta con impeto l’allora sergente e oggi generale di brigata in pensione Antonio Bianchi –. Seduto accanto all’autista di una Lancia Ro, entravo a Trieste con un tempo da lupi, sotto la pioggia battente e un freddo micidiale dovuto alla bora. Davanti a me, non vedevo nulla: migliaia di persone accalcavano le strade e le piazze impazzite di gioia, si erano strette attorno alle vetture, ci impedivano di proseguire. Si attaccavano alle porte, sedevano sui cofani, sui tettucci. Dal mio cruscotto, vedevo solo gambe».
È difficile non restare contagiati dall’entusiasmo di questo “fresco” uomo di 82 anni, che ricorda come fosse ieri questo particolare avvenimento storico, conscio del privilegio di averne fatto parte. E che da soldato semplice, è riuscito a scalare tutti i gradi fino ad arrivare a quello di generale.

«Allora avevo 22 anni, ero comandante di squadra, oltre che vice capo fanfara del maresciallo Luigi Imelio. Quando il 5 ottobre è stato stabilito che Trieste doveva ritornare all’Italia, il ministero della Difesa decise che a entrare nella città per primo fosse il 5 battaglione dell’8º reggimento bersaglieri, di cui facevo parte».
La sera del 25 ottobre, l’8º bersaglieri parte dalla caserma Martelli di Pordenone, vicino l’ospedale, dov’era di stanza il reggimento che dipendeva dalla brigata Ariete (e che oggi, appartenente alla brigata Garibaldi di Caserta, riceve la cittadinanza onoraria della città di Trieste, ndr) per raggiungere una caserma a Sagrado (in provincia di Gorizia) per sostare la notte.
«Ci siamo alzati alle quattro per rispettare la tabella di marcia. Ma tra il tempo inclemente e la folla che prima dell’alba accalcava le strade, abbiamo subito accumulato ritardo tanto che, all’arrivo in città, dove ci aspetta il comando alleato per cedere il comando, gli inglesi se ne erano già andati».
De Bianchi esplode in una risata. «”Noi non abbiamo paura della pioggia”, ci hanno detto gli americani. In verità gli inglesi non volevano forse affrontare l'ostilità dei triestini». E riprende il ricordo, estasiato. «Continuava a piovere, ma chi sentiva il freddo e la pioggia! Eravamo zuppi, ma ci asciugammo i vestiti solo con il calore e l’entusiasmo trasmesso dalla gente! Oh, Trieste era così accalcata, che se si fosse buttato per aria un ago, non avrebbe trovato spazio per cadere per terra!».
Quel giorno, la fanfara dell’8º eseguì un concerto in piazza. «La gente, soprattutto le mamme e le ragazze, ci abbracciavano al grido di: “Viva l’Italia!” e ci staccavano qualcosa per ricordo: una piuma, un bottone, le mostrine, dicendoci che anche le loro e mamme e nonne avevano fatto così nel 1918. Alla sera, per suonare ci mettemmo il fez. Peggio che peggio, con le forbici, ci tagliavano il fiocco... Festeggiavamo tutti assieme Trieste all’Italia e da allora “Tergeste” è sempre nel mio cuore».
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